sabato 7 giugno 2025

Appunti per un sistema di trasmissione del Parkour, parte 3/3

 "Pensare libero e tanto porta a numerosissime contraddizioni, ma ogni contraddizione risolta  è un'evoluzione del pensiero." 

Dal diario di viaggio in Asia di Federico, 2010


Nel maggio del 2016 Gato, aka Federico Mazzoleni, scriveva "appunti per un sistema di trasmissione del parkour parte 1 e poi 2/3. La terza parte non vide mai la luce. 

Gato è morto nel gennaio del 2019. Il suo corpo, almeno. In noi  ha lasciato un vuoto, ma in me ha lasciato soprattutto qualcos'altro.  Una chiamata.

La voglia di continuare a scavare il tunnel che a forza di mani aveva iniziato lui. Insomma, celebrare la sua vita continuando il lavoro, invece di celebrare solo la sua morte come i nipotini che vanno a visitare al cimitero la tomba della nonna morta una volta all'anno. 

 Quel vuoto lasciato dalla sua morte io non l'ho mai davvero sentito. Ma ho sentito e sento la sua "presenza"  nella mia mente in ogni dubbio che mi pongo quando devo rompere ( o aprire? Non riesco a decidermi quale parola descriva meglio il processo) un salto, quando decido cosa e come insegnare ad adulti e ragazzi, quando mi interrogo sul mio valore, quando pubblico un video del mio allenamento. 

Sono cresciuto anche grazie a lui. Se questo blog è nato nel 2009 è anche perchè leggevo il suo. L'ho divorato, mi sono lambiccato il cervello per anni, nel tentativo di capire qualcosa dei molti livelli dei suoi ragionamenti ed ero ammirato dalla profondità scientifica e dal rigore della sua ricerca. 

Ragionare sulle ragioni divine e sull' ingiustizia della sua morte ha poco senso, e per quanto lo conoscevo, credo che mi avrebbe riso in faccia della mia serietà nell'ammirarlo, così come avrebbe riso della soggezione che provo ora nel tentativo di portare avanti la sua ricerca come insegnante. Mi immagino quegli occhi  celesti furbetti dirmi, ghignando: " Tè Ghost, cosa aspetti?! "

 Ora sono quasi sette anni che è morto e pensandoci i sette anni da quando è scomparso sono quasi più lunghi degli anni in cui è stato pioniere in Italia. Oltre al ricordo della sua visione, che si è interrotta in un periodo difficile per il parkour/ADD in Italia, voglio portare avanti la ricerca con lo spirito di questo momento, con tutta la bellezza, la sporcizia e le contraddizioni che lo segnano. 

Allora scrivo, Gato. lascio i miei due cents su come insegnare il parkour/ADD , ora che ho più esperienza e ora che so prendermi meno sul serio. Ora che intravedo a tratti l'impermanenza di tutte le cose. Porto il mio, ma prendo anche da te, che eri così bravo a trarre parole e immagini dalla parte più difficile del parkour, la parte invisibile. Che poi è quella che fa tutto quello che lo rende arte (marziale) e non solo sport di prestazione. 

Ho deciso di scriverne perchè ho dovuto prima riconoscere quali sono le qualità che cerco di sviluppare in me, poi quelle per poter insegnare al massimo delle mie capacità e poi quelle che voglio tramandare insegnando. E ovviamente il cosa e il come.


Alla base di tutto ci sono alcuni assiomi irrinunciabili senza i quali il pk/ADD non sarebbe quello che è, ma solo un imbastardimento della ginnastica artistica.

Non competizione: il parkour offre qualcosa di diverso dai soliti sport, dove le regole sono sempre più precise in termini di comportamento, possibilità, limiti di partecipazione e standardizzazione per ottimizzare la performance. Nei primi decenni dalla nascita di discipline freestyle come l'arrampicata libera, la breakdance, lo skate e il surf c'era il forte desiderio di dissociarsi da una realtà sportiva ( ma forse proprio da una società) che imponeva di adeguarsi chiudendo la libertà di espressione in regole, punteggi e stili. Mentre la non competizione permette un confronto sano tra le persone riconoscendo la soggettività, i gusti personali, i diversi modi in cui può svilupparsi il problem solving personale.  Il parkour ADD è uno strumento politico proprio perchè scardina queste regole. Si può fare fuori praticamente gratis e ovunque. Ognuno può farlo secondo le proprie capacità e non deve rendere conto a nessuno se non a sè stesso/a dei propri risultati. E' una forma di dissenso e di presa di coscienza. 

Coerenza: Il parkour è solo un'attività. Di per sè nè nobile nè bastarda. E' uno specchio. Mostra quello che siamo senza poterci nascondere. E ci chiede di fare uno sforzo per produrre qualcosa di coerente con i valori di cui ci riempiamo la bocca (pratichi? Pratica quello che dici. Insegni? Formati, sii competente, non farlo a caso solo per due soldini). E non lo fa solo quando siamo di fronte ai nostri corsisti, con il mantello dell'eroe addosso. Ma quando ci alleniamo da soli, quando decidiamo se chiuderci in palestra perchè fuori piove (mentre cianciamo del valore dell'adattabilità) , quando editiamo un video dei nostri movimenti in un modo che tutti i salti sembrino più grossi e tagliando le parti imperfette o il processo.  E' la nostra coscienza. Ed è facile sottrarvisi per due like, un euro in più,  uno sbattimento in meno.

 Un piccolo appunto, entrando quasi nel mio ventesimo anno di pratica, ed è per me ancora un'espressione di coerenza. A chi mi chiede cos'e' il parkour non rispondo più con la solita risposta standard mettendomi in modalità replay e sciorinando la solita definizione, più o meno sempre quella e tra l'altro un pò ambigua. Quando mi chiedono :" Cos'e' il parkour"?  Io rispondo con tutta l'onestà di cui sono capace: "Io non lo so. So che è qualcosa a cui sono devoto.". " E come lo insegni?" " Il parkour si può imparare, ma non si può insegnare."




Le qualità che ricerco:

Forza

Averne abbastanza per pianificare un'invasione, costruire una casa, scavalcare un muro, sollevare una persona, traversare una parete di roccia, rimanere freddo quando tutti intorno perdono la testa, resistere alle tentazioni, mandare k.o. un nemico o riuscire a farlo ragionare con la forza della mia calma.

Comunità

Trovare nel tempo persone che, pur nella loro diversità stiano viaggiando nella mia stessa direzione. Formare una tribù. Spingere e farsi spingere per avvicinarsi ad esprimere il proprio potenziale, cosa difficile da fare da soli.

Espressione di sè.

In ultima analisi il parkour è per me una forma d'arte.  E tutte le forme di arte sono espressione di sè,  della propria visione interiore. Cercare di  vivere la mia pratica e la mia vita  come un' arte richiede grande onestà e umiltà, prerequisiti fondamentali per potersi esprimere sinceramente, lontani da mode, schemi e convenzioni sociali e culturali.

Ovviamente queste idee sono temporanee, cambiano. Sono Vive e Verdi! Alcune sono più importanti oggi di ieri, altre le lascio perdere per un pò e poi ci torno. Cercare di avere dei fondamenti non è soltanto avere dei pilastri solidi, come i tre pilastri della piramide del parkour. Ma ha significato per me costruirmi un timone e una vela per dare a questa barchetta sperduta nell'oceano una rotta. Che non so dove mi porterà, ma almeno posso esplorare avendo una direzione. 

Bodhidharma, da cuore a cuore


I princìpi del mio insegnare

Qui voglio condividere i fondamenti della pratica che voglio passare nel coaching e che dividerò principalmente in quattro grossi rami dell'albero:

Il far fare

 So dovessi riassumere al massimo cosa fa il coach di ADD/Parkour, direi che l'insegnante è colui che fa fare alle persone. Far fare non significa  certo imboccare i discenti con nozioni e tecniche, in maniera verticale e soprattutto facile.  Trovo molto rischioso insegnare delle tecniche così come noi insegnanti le sappiamo eseguire adesso, in modo più o meno perfetto. Io preferisco, dopo una fase iniziale di osservazione delle persone a cui insegno per esempio il monkey, capire quali sono i princìpi che ognuno deve capire per comprendere il movimento, e questo richiede alcuni fattori di cui tenere conto:

  • Personalizzazione: ogni persona è diversa. Per età, livello, forza fisica, intelligenza motoria. Ognuno ha timori diversi, più o meno fondati. Quindi ciascuno avrà bisogno di consigli diversi e non ha senso standardizzare per velocizzare il processo , magari col fastidio per chi rimane indietro. 
  • Il principio del labirinto: guidali, dà loro gli strumenti, ma poi lascia che trovino da soli l'uscita. Imparare dai  propri errori, dover combattere con le piccole frustrazioni date dal non capire un movimento e poi risolverlo da soli permette il vero apprendimento, quel cambiamento interno dato dal lavoro tecnico che và a braccetto con quello emotivo ( ed ecco perchè il talento è una trappola, per chi impara ma soprattutto per chi insegna). Queste persone impareranno più lentamente che se gli avessi detto tutto e subito? avrebbero imparato il monkey. Ma nient'altro. Invece in questo modo rimane nella memoria anche la gioia del successo guadagnato con la propria fatica. Si ricorderanno i dettagli necessari per eseguirlo nel migliore dei modi. Il coach è un facilitatore, non una nutrice. Ed ecco perchè il talento è pericoloso. Chi impara qualcosa molto facilmente e in poco tempo (perchè ha un talento)  non è dovuto passare attraverso decine se non centinaia di tentativi, che permettono di scoprire varianti, progressioni e regressioni preziosissime quando si insegna a persone molto diverse, ognuno con i propri bisogni. Ogni errore ripetuto è un vicolo cieco che lo studente deve trovarsi davanti per poter capire di dover provare un'altra strada. 

  • La sfida: un tema che negli anni si è ripresentato più volte, un tema che per molti insegnanti è critico e sempre aperto: quanto far rischiare ai propri allievi? E' necessario dare gli strumenti necessari a gestire la situazione pericolosa. Poi è importante comunicare con molta chiarezza quali sono i rischi di quella situazione. In seguito  io ritengo sia essenziale spiegare il valore che sta dietro l'affrontare un salto che potrebbe essere fatale ( spero che qui non sia necessario entrare nel merito). E infine bisogna avere fede. Fede significa fiducia che quella persona saprà gestire la situazione,  sia che lo faccia sia che rinunci. E accettare di buon grado le possibili conseguenze, che dovranno essere minime se abbiamo lavorato bene. Ma non dimentichiamo che il parkour/ADD è pericoloso. Non raccontiamoci bugie.

La trasmissione da cuore a cuore

"Da cuore a cuore" è un modo di dire del Buddhismo. Indica  una trasmissione empatica della disciplina, al di là del linguaggio e del formalismo. Ascolto, dialogo, aprirsi come essere umani e, anche siamo coach, parlare delle proprie paure e dubbi. L'ho sempre fatto. Non ho mai creduto a questa aura di divinità e perfezione che alcuni insegnanti hanno o si costruiscono. Da cuore a cuore significa, per chi l'ha fatta con me, guadagnarsi la settimana di ferro, con tutto quello che c'e' dentro, Significa coltivare coi propri corsisti ( o partecipanti a un workshop) una pratica che và ben oltre i salti. Può essere la tazza condivisa da cui beviamo la stessa acqua.

I princìpi invisibili oltre la tecnica

  • Esplorazione: provo a portare una visione della pratica in città esattamente come se fossimo un gruppo di Neanderthal in un ambiente sconosciuto. Una foresta. Allora non ci sono direzioni in in cui non si può andare, livelli che non possiamo esplorare alla ricerca di risorse, o per pura curiosità umana. In questo modo il parkour non si riduce al riempire uno spazio d'aria col proprio corpo, saltando da un punto ad un altro. La città  diventa foresta viva e piena di angoli e misteri da conoscere. I salti, le tecniche, sono solo i mezzi con cui conoscerla in ogni suo segreto. Niente che non potrebbe esserci anche senza un singolo salto.
  • Conoscenza di sè : i breaking jump sono mezzi per conoscere il sè di oggi e aprire la strada a quello che verrà domani. Il resistere alla fatica è un altro mezzo. Prendi misura della tua forza e scopri quanto sei vigliacco, debole, quanto sei disposto/a a barare per finire qualche secondo prima. E' questo il nostro lavoro. Spogliare le persone e noi stessi delle sovrastrutture e vedere la perla che si nasconde sotto. Chi partecipò alla sfida finale del workshop a Verona di un paio di anni fa si ricorderà la tensione, lo scontro di ossa e tendini nel rimanere in quelle posizioni per un tempo infinito. 

espressione di sè (della propria arte interiore)

Mi impegno attivamente perchè le persone che alleno non diventino miei cloni. Se non si sta attenti le persone iniziano a imitare naturalmente il modo di fare, di parlare, persino di gesticolare dell'insegnante se questo ha carisma ed esercita una qualche forma di soggezione. Ma soprattutto insisto sul far trovare a ognuno il proprio stile di movimento e di creazione di percorsi. Come diceva quello stronzo del mio mentore quando facevo il panettiere, che mi sgridava  perchè cercavo di rubargli il lavoro con gli occhi: fai come dico, non come faccio io. Meglio non correggere ogni errore che si vede, o qualche sbavatura nei movimenti. Che ognuno possa esprimersi, anche se per molto tempo non sapranno cosa significa esprimersi, cioè andare oltre le tecniche più fighe e i salti più grossi. Questo nell'insegnamento. E per me come praticante? Vale lo stesso. Valgono le parole di Bruce Lee qui.


Camminando speso in montagna mi è venuto un pensiero sull'insegnamento. Noi insegnanti, di qualsiasi livello, vogliamo portare i nostri discenti sulle cime delle montagne, che rappresentano il livello di competenze che vogliamo che queste persone raggiungano e che sarebbe anche il livello al quale ci troviamo noi ( perchè lo vogliamo, vero? Non vogliamo tenerceli come corsisti all'infinito, spillando i loro soldini per più tempo possibile centellinando le conoscenze, vero?!) . Bene. Ma l'errore che non dobbiamo fare è quello di aspettare queste persone in cima. Noi non dobbiamo essere in cima e chiamare i nostri studenti incitandoli dall'alto a camminare per raggiungerci. Non è così che si và in montagna e non è così che si dovrebbe insegnare, per me. Si dovrebbe partire tutti insieme dal basso, camminare insieme, magari indicando il sentiero migliore a un bivio o i punti critici da evitare- anche perchè in tutto questo processo le persone ci guardano e ci imitano (l'insegnamento è costante, anche quando non stiamo insegnando). Alla fine lo scopo dell'insegnamento non dovrebbe essere quello di portare le persone sulla nostra cima, ma dovrebbe essere insegnare loro a camminare sui sentieri. Poichè solo così le persone saranno in grado, in futuro, di salire sulle LORO cime. 


Infine: Questo non è che un tentativo di tradurre le vaghe sensazioni e le poche certezze accumulate in questi anni di pratica e insegnamento per scritto. E' pur sempre un diario. Non è la verità, neppure per me. E' il desiderio di saldare il debito che sento col parkour, che tanto mi ha chiesto e che tantissimo mi ha dato. E' un amante al quale sono devoto. Ed è anche per questo che insegno. Per restituire qualcosa di quanto ho ricevuto.  Non ho l'ardire di portare avanti la ricerca di Gato,  ma è anche grazie a lui se sono quello che sono. Glielo dovevo.