domenica 3 novembre 2024

Traversata della Val Grande: due giorni perfetti

 Come sempre quando parlo di trekking non descriverò nel dettaglio il percorso fatto, le difficoltà e punti salienti, ma le mie emozioni a riguardo e quello che mi ha colpito e fatto riflettere. Per le guide internet è già pieno di ogni dettaglio. 

Cercavo la bellezza e la contemplazione dello spirito autunnale. Dopo il thrualps di questa estate dove non ho potuto decidere il ritmo da seguire avevo voglia di fermarmi ad ascoltare ogni cascata, ogni   sfumature di colore delle foglie e persino le venature dei massi che  avrei incontrato. 

E così ho fatto.

 La Val Grande è l'area wilderness più estesa d'Italia, oltre a essere parco nazionale dal 1992. Per poi essere stato ampliato nel 98. Comprende una serie di ambiente a protezione graduale. In alcuni si possono fare alcune attività, altri sono solo attraversabili, e in alcune aree è vietato l'accesso, per preservare completamente la flora e la fauna dall'influenza dell'uomo. 

Da tempo pensavo di fare questo breve trekking, ma la fama di area selvatica e pericolosa mi intimoriva. Nel frattempo mi sono fatto un pò di esperienza qua e là fino a sentirmi pronto. Alla fine ho scelto di fare la traversata più classica e ben segnalata, da sud-ovest a nord da Premosello a Malesco. Ho scelto di farla in direzione contraria a a quella che tutti di solito fanno sia per evitare di incontrare troppe persone, sia per fare in salita la mattina del primo giorno quella che altrimenti sarebbe stata una discesa spacca ginocchia il pomeriggio del secondo. Ed è stata un'ottima scelta. 

Anzi oso dire che per quanto breve ( 31 km che volendo si potrebbero completare in giornata) questo sia stato forse il trekking perfetto: dopo settimane di pioggia si era aperta una finestra di bel tempo con cielo perfettamente limpido, temperature medie perfette, il parco in pieno foliage di faggi, betulle e larici a quote più alte, pochissime persone incontrate e la possibilità di sfruttare il ponte del primo novembre per fare questa traversata venerdì e sabato, invece di sabato e domenica, incontrando ancora meno gente. 

La Val Grande non è un parco addomesticato, per quanto non sia impossibile attraversarlo e viverlo. Però può rappresentare una sfida. Non tanto per la possibilità di perdersi fisicamente, che comunque è presente, ma per quella di perdersi a livello emotivo, spirituale. Ci sono boschi isolati, antichi, dove il silenzio è quasi inquietante. Dove per qualche motivo gli uccellini non cinguettano e le foglie che cadono non fanno rumore. E' quello che io andavo cercando. Volevo entrare in contatto con questi boschi e queste cime silenziose. Camminando, sedendomi, fermandomi ad ascoltare.  Ora un piccolo riassunto del giro fatto: 

Su consiglio del buon Francesco ho fatto la traversata da sud e seguendo la sua traccia. Grazie Fra.

L'unico piccola preoccupazione è stata arrivare in tempo a Malesco per prendere il treno che ho dovuto prenotare in anticipo (a causa della grande affluenza, è famoso perché permette di ammirare il foliage della valle a bordo di un trenino su rotaia a scartamento ridotto che costeggia le montagne immerso nel bosco), ma non si è rivelato un vero problema. 

Sono partito alle 6 e mezza di mattina lasciando l'auto alle 7 e mezza a Premosello, da dove il grande muro di montagne che forma la porta occidentale della Val Grande fa paura. Sembrano insuperabili. E in effetti per poter accedere alla porta occidentale bisogna superare in una botta i 1500 metri di dislivello dal paese di Premosello all'alpe La Colma in 8 km.  Sono salito immerso in faggi dai mille colori. Ho fatto molte pause per ammirare tutto quello che avevo intorno e per il  molto caldo, esposto a sud.  Si sale ancora su una gippabile, poi immerso nel bosco scivoloso di foglie bagnate all'ombra o croccanti al sole. Verso le 3 di pomeriggio sono arrivato ai bivacchi di In La Piana, dove alle 6 era già buio e ho ammirato a lungo le stelle. Ho passato una notte agitata da strani sogni di caldo e di spavento. Alle 5 ero in piedi e alle 6 sono partito, col bosco che era un'unica pozza di inchiostro nero. Sono partito presto sia per arrivare in tempo a Malesco senza correre sia per non avere gente intorno. Mano a mano che la foresta si svegliava ho iniziato a vedere di nuovo i colori, sono ripassato davanti alla cascata sotto alla quale il giorno prima ho fatto un bagno purificante, poi ho attraversato il ponte tibetano completamente bagnato di rugiada e scivolosissimo. Qualche ora dopo ero al punto più alto della traversata, Alpe Scaredi 1850, da dove di fronte si vedevano le montagne delle alpi lepontine e centrali, e dietro la splendida catena del Monte Rosa, del Dom, del Cervino. Da li inizia la lunga discesa verso Malesco. Mi sono ingegnato a fare un caffè usando il fornello ad alcool e dei sassi e ho iniziato scendere. Dentro di me cercavo di comporre, come Basho, qualche verso, ispirato dalla bellezza delle cime lontane o dei colori dei faggi davanti a me, ma nulla è emerso. 

Così mi sono limitato a sedermi in meditazione in un angolo al sole poco sotto la cima lavorando solo sul vivere quel momento senza malinconia. Sono stati due giorni troppo belli per intristirmi riflettendo sulla solitudine che vivo o sulle altre cose che gettano ombre. Il lavoro principale è l'accettazione senza attaccamento ai desideri. Che non significa accettare tutto passivamente o non avere desideri. Significa non esserne schiavi. Non attaccarsi alle cose che temiamo di perdere o che vorremmo avere.Il desiderio di avere una compagna, qualche soldo in più per non dover decidere se a fine mese poter fare la spesa o pagare quella bolletta, l'invecchiamento, la morte stessa. Temi da affrontare serenamente senza stupidi tabù e senza superstizione. 

Così riflettevo, una volta rimessomi a camminare, fino a quando distrattamente sono stato tradito dalle mie scarpe completamente consumate che non offrono più alcun grip sulla roccia bagnata, dopo due giorni in cui ero riuscito a guadare 50 torrendi senza mai bagnarmi, ho infilato un piede in una pozza profonda fino al ginocchio! Dopo un attimo di incredulità sono scoppiato a ridere e mi sono accorto che camminavo immerso in quelle meditazioni buddhiste invece di essere presente! Il resto della discesa l'ho fatta stanco ma sereno, di nuovo sveglio alla realtà. Quanta bellezza ho attraversato in un giorno e mezzo. Infine sono arrivato a Malesco, e dopo 4 cambi di treno per problemi vari sono tornato a casa a coccolare Subhuti, che avendo subito anche lui la sua dose di solitudine si è guadagnato una scatoletta intera di cibo premium.




















 

"Sera d'autunno-

da solo faccio visita 

a un'altra solitudine."- Yosa Buson




sabato 12 ottobre 2024

Il Tao dei breaking jumps



Ho costruito questo post  mentre leggevo il libro di Laurent e dopo aver ripreso in mano dopo molto tempo i testi fondamentali sul Jeet Kune Do.  

L'idea fondamentale del Daodejing è il seguire la natura, nel senso di non agire (wu-wei), il cui vero significato è quello di non compiere alcuna azione innaturale. Significa spontaneità, e cioè mantenere tutte le cose nel loro stato naturale, permettendo loro di "trasformarsi naturalmente". In tal modo "nulla viene intrapreso e tuttavia nulla viene lasciato incompiuto".

 Rileggere ultimamente queste parole di Bruce Lee sui princìpi del taoismo mi ha fatto sorridere, perchè prima ancora di scoprire il parkour leggevo i suoi libri, prendevo appunti, credevo di aver capito le idee che coltivava e la sorgente della sua filosofia, quella che poi avrebbe fatto germogliare il Jeet Kune Do.  Ma avevo 14 anni. Non capivo molto, anche se ne ero innamorato. 

il sentiero che porta al miglioramento nella mia pratica sta passando, in questi ultimi tempi, dall' usare un approccio diverso nell' allenamento. Diverso da quello che ho avuto per molti anni, influenzato da idee che da ragazzo avevo appreso, frainteso e radicalizzato. Pensavo che avere paura fosse un segno di debolezza, e più ne avevo più mi sentivo inadeguato. Un impostore. Credevo che essere dei praticanti dovesse significare spingere sempre tutto, sforzarsi, sbattere contro gli ostacoli a testa bassa, fino ad abbatterli. Vincerli tramite il proprio coraggio e la propria forza. Questo principio calzava come un guanto per il mio carattere rabbioso, introverso e sostanzialmente insicuro. Usavo la rabbia sviluppata durante l'infanzia come un potente carburante per alimentare il fuoco dell'allenamento. Che portava si dei risultati, ma il prezzo da pagare era alto.  Frustrazione, nuova rabbia, infelicità se le cose non mi riuscivano ( e sa il cielo sopra Varese quante non me ne riuscivano rispetto a quelle che mi riuscivano). Sono cresciuto vedendo intorno a me esempi di praticanti forti e coraggiosi che sembravano non temere nulla. Né il fallire né il farsi male. 

Decidevano di rompere un salto e lo facevano subito. Senza perdere tempo e paturnie.

Li ammiravo ma nello stesso tempo iniziavo a sentire che era inutile imitarli, non avrei mai potuto incarnare quel tipo di approccio. Mi ci sono voluti molti anni per capirlo. Anni di bruciante amore per la pratica, ma anche di dolore. Eppure non ho pensato neanche una volta di smettere, nonostante tutto.  Per fortuna, lento come sono a capire le cose, ho praticato abbastanza tempo da iniziare a realizzare cosa mi serviva. 

Un abbraccio. 

Un abbraccio gentile dato a me stesso, guardandomi negli occhi e dicendomi che non c'e' fretta. I salti che vuoi fare arriveranno. Certo, il coraggio servirà.  A volte un approccio gentile ai salti non sarà possibile. Quando servirà potrò ancora attingere a quella rabbia, se messa al servizio e usata a fin di bene.  Ma non è più necessario l'odio, per riuscire. 

Negli ultimi anni ho potuto usufruire di nuove influenze. Compagni di allenamento che non posso non definire benefici, per quanto meno frequenti di quelli avuti per tanti anni a Varese. Persone gentili che mi hanno insegnato parole che non conoscevo. Ascoltarsi, cercare strade alternative, progressioni e regressioni, sbagliare apposta e divertirsi.  Divertirsi nella pratica.   #ioconfuso.





Per fare tutto questo però prima ho dovuto affrontare un processo ( non nel senso di progresso, ma di vero e proprio processo giudiziario in cui mi sono trovato a essere imputato, avvocato della difesa e giudice) per non sentirmi più colpevole. Colpevole di non fare un salto subito e senza paura. Ero colpevole e reo confesso di voler essere qualcosa che non ero. Forte e coraggioso come l'idea di come avrei dovuto essere, e che puntualmente deludevo. Ho dovuto imparare a non identificarmi né nei salti che facevo né nella pratica stessa. 
Ho dovuto fare una divisione tra il mio valore come umano e e i salti che faccio. Mi lasciavo definire dalle mie possibilità di quel momento, senza lasciarmi lo spazio per nuove possibilità future.  Questo è un punto cardinale perchè sento che è da quel preciso momento che è iniziata la mia liberazione personale come praticante: quando ho smesso di identificarmi nella mia pratica tutto è cambiato. 
Tutto tranne la voglia di spingere e sviluppare la forza e la tecnica suprema.

Perchè sto facendo questo? Perchè dopo 19 anni di pratica continuo a mettere in discussione il mio allenamento e i motivi che mi spingono a praticare? Prima di tutto perchè non posso farne a meno. L'ADD, il parkour, il movimento, mi brucia dentro da sempre,  e come ogni cosa viva cambia, si trasforma. Poi perché anno dopo anno mi sto liberando sempre più delle tradizioni, dei modi di fare che si fanno solo "perché è si è sempre fatto così", delle cerimonie, dei formalismi.  Nella mia vita io voglio compiere l'opera senza esserne orgoglioso,  coltivare le cose senza prenderne possesso. Perciò il mio modo si pone complemento a tutti gli artifici, le regole, la formalità.  Voglio esprimermi nell' Art Du Deplacement  con onestà.
 " In definitiva per me, le arti marziali sono un modo per esprimermi onestamente. Esprimersi onestamente.. è molto difficile da fare. Voglio dire, è facile per me fare spettacolo ed essere arrogante ed essere inondato da un sentimento di arroganza e poi sentirmi piuttosto figo...o posso fare un sacco di cose false, accecato da questo  posso mostrarti qualche movimento davvero fantasioso. Ma esprimersi onestamente, senza mentire a se stessi...amico mio, è molto difficile da fare." -B. Lee, sulla natura delle arti marziali.


In ogni caso sto imparando ad utilizzare questa via morbida nei movimenti nei quali sono sempre stato più timoroso. Kong, running precision, ma soprattutto nel lavoro sulle altezze, dove prima mi paralizzavo. 

In sostanza, questa via morbida per sbloccare salti che fanno paura passa da alcuni concetti che si possono applicare quasi sempre:

Gradualità: sembra banale, ma entrati nella cosiddetta send culture, io faccio un passo indietro e mi prendo tutto il tempo per progredire con deliberata calma verso un salto. E' necessario sviluppare un pò di creatività per trovare le progressioni e le regressioni possibili o quelle necessarie in quel dato contesto e per quel dato salto. Ma si può fare. Così facendo sto trovando più stimolante che stressante un lavoro che prima magari mi avrebbe consumato il sistema nervoso in pochi minuti, potendomi in questo modo avvicinare meglio all'obbiettivo. Se ad esempio ho uno stride da fare su muretti in altezza  e ognuno dei passi dello stride è diverso dall'altro perchè i muretti sono tutti a distanza diverse non mi limito più alla solita progressione lineare, ( ne faccio uno, poi l'altro poi il terzo singolarmente per poi unirli) ma prendo il problema da un altro punto di vista. Prendo confidenza col fatto di usare un solo piede per volta, andando avanti e indietro camminando, faccio piccoli stride sul posto. Sto usando bene le braccia? Com'e' il lavoro di swing delle gambe? e i piedi come li sto appoggiando? Che tensione emotiva ho nel tronco? Che contenuto emotivo sto avendo quando sono in aria e quando atterro? Poi in pliometria. Poi uno stride e due plio, due stride e solo l'ultimo in plio, poi tutto. Ma rimanendo sereno, così da evitare la sindrome da secondo tentativo. 

Godere dell'insuccesso e sfruttarlo: qualcosa che sto avendo ancora difficoltà ad implementare con consistenza nel mio allenamento, così abituato alla classica formula  del "prova finchè riesci e una volta riuscito ripeti fino all'interiorizzazione."  Godere dell'insuccesso è qualcosa che sto apprendendo dai principi del Feldenkrais e che in pratica si fa sbagliando apposta un salto in molti modi diversi. Sbagliare deliberatamente è stato per me un mindblowing non da poco, quando non era per provare le tecniche di salvataggio dell'ukemi, perché significa si sbagliare un salto, ma non tanto da dover fare un salvataggio. E' più fare dei micro errori nell'assetto aereo o all'atterraggio così da doversi adattare all'istante e arrivare comunque incolume. Questo sistema crea delle inaspettate aperture alla creatività: 

  • permette di immaginare varianti più difficili dello stesso salto;
  • fare varianti più difficili rende il salto target più facile;
  • avendo fatto varianti difficili so di potermi salvare, questo a sua volta dà la sicurezza necessaria al provare il salto target con mente più calma e quindi con una tensione emotiva minore e quindi con maggiore controllo:
  • tutto questo fa vivere con minore pressione la progressione verso il successo, e fanculo la send culture.


Non forzare: "ora è il momento giusto per farlo. Ora o mai più." Questo discorso interiore và fatto e vissuto. Bisogna vivere con la massima presenza mentale e con la massima intenzione quello che ci si è messo in testa di fare. Impegnarsi davvero. Ma detto questo non muoio se non lo faccio oggi. Si può tornare  domani a farlo. Non succede niente.





Queste semplici idee stanno facendo germogliare in me una pratica diversa. Una pratica più serena ma non per questo meno spinta. A 35 anni sto spingendo salti che non avrei fatto a 20 o a 25 anni, ma senza il dolore interiore di prima. Sento questo cambiamento come l'appropriarmi lentamente e sempre di più della mia vera pratica, sempre più ADD  e sempre meno parkour. Questa sembra una frase da poco ma per me significa molto. Per molti anni ero granitico sulla mia posizione. Avevo scoperto questa disciplina col nome parkour, e così l'ho sempre chiamata. La guerra tra i fondatori non era la mia guerra. La capivo ma non mi importava, non avevo nessuna voglia di combattere una battaglia che non era la mia. Avevo già le mie di cui occuparmi. Ma negli ultimi tempi questa idea è cambiata. Non soltanto perché ho avuto modo di comprendere più a fondo ciò che lega e divide il parkour e l'ADD ma anche perché la mia stessa pratica si è via via trasformata. Non forzando il processo, esso è venuto da sè. 


 












mercoledì 28 agosto 2024

Thru alps: 160 km a piedi attraverso le Alpi

 


In Trentino c'e' un uomo, un mio coetaneo, che nel 2018 ha percorso a piedi i 4218 km del Pacific Crest Trail, un sentiero negli Stati Uniti. Una volta tornato ha deciso, dopo varie vicissitudini, di diventare una guida. Di accompagnare le persone alla scoperta di quella dura bellezza che la natura sa offrire, quel segreto che si svela solo a chi fa la fatica di inerpicarsi con le proprie forze lassù, tra le montagne. Io ho conosciuto Lorenzo perchè cercavo info su quel famoso sentiero da lui percorso, ma poi l'ho contattato perchè mi interessava la sua visione dell'hiking, molto simile alla mia. Infine qualche anno fa ci siamo trovati a camminare per un paio di giorni insieme, in questo  percorso.  Dopo quella volta mi sono ripromesso che non avrei più camminato in montagna in compagnia. Sia perchè sono un solitario sia perchè ho bisogno dei miei ritmi, di pause di contemplazione. Correre in autostrada non fa per me. Ho bisogno di prendere strade lente per apprezzare il mondo intorno. 

Poi però Lorenzo nella figura di guida ha proposto qualcosa che appena ho visto ho subito sentito come una sfida per le mie capacità di hiker indipendente che si sta facendo le ossa con percorsi sempre più lunghi fatti in autonomia: un trekking di 10 giorni e 160 km attraverso le alpi, alla ricerca di spazi poco frequentati e selvatici, belli e aspri. Nudi come la roccia. 

In autonomia.

Così ci siamo di nuovo sentiti per chiedergli informazioni varie su date, percorso, capacità necessarie ecc.

Troppo interessante ma...

 Fino a pochi giorni prima della partenza ero in dubbio. Ho un ginocchio che tende a fare i capricci quando deve affrontare lunghe discese, e nell'unica altra esperienza di trekking in compagnia ( proprio quel sentiero fatto con lui e un altro amico) si era infatti infiammato già alla fine del primo giorno, su un percorso di due. Temevo davvero di non essere in grado di completare qualcosa di simile. Il massimo che avevo fatto era stato un trekking di 4 giorni, con molto meno peso nello zaino, meno dislivelli, meno kilometri. E soprattutto andando al mio ritmo. La cosa che più mi turbava era il dovermi adattare agli altri. Però...quando ricapita un'occasione simile? 

Ci ho pensato a lungo. Alla fine ho deciso di proporre la mia partecipazione in cambio della mia esperienza con l'allenamento, la preparazione fisica e per la prima volta con la condivisione della mia ricerca sulla meditazione e sulla pratica del Buddhismo Zen. 

Lorenzo ha accettato e il primo passo era fatto. Non si torna indietro, nonostante i dubbi. 

Così è iniziata la pianificazione sull'equipaggiamento necessario, sul cibo da portare per i primi 5 giorni ( il resto lo avremmo ottenuto nell'unico paese attraversato nei 10 giorni di trekking, poco oltre la metà del percorso) e sull'atteggiamento da portare come partecipante  e come guida sui temi di cui fra poco parlerò.

il viandante sul mare di nebbia e il mio zaino pronto al viaggio. Il mio caro carlino 2.0


Perchè Thru Alps

L'idea da cui nasce questo trekking è che per potersi immergere davvero nelle sensazioni che la natura offre, sia spiacevoli che piacevoli, serve tempo. Serve rimanere lontano dalle continue distrazioni che il mondo ci propone, dai comfort della casa e dei servizi sempre pronti per una quantità di tempo sufficiente a riaprire gli occhi alla realtà che abbiamo davanti. Che è fatta di altro. E' fatta proprio di quelle sensazioni che abbiamo dimenticato di poter vivere come normali. E' fatta di molte migliaia di passi fatti in silenzio per poter scendere in profondità nei propri pensieri. Di panorami che sembrano eterni e sono continuamente cangianti, di ricominciare a esplorare sè stessi non più distratti ma finalmente presenti, presenti a ogni passo che si compie con attenzione, per non inciampare. 


Come dice Lorenzo nel suo sito, coltivare la bastevolezza. 


L'inizio del percorso


il primo shake down.

Il giorno prima dell'inizio del trekking sono partito da casa per poter riposare la notte a Trento, dove ho prenotato un hotel. Città bollente, che però si rinfresca un pò la sera dove ho girato, bevuto l'acqua di ogni fontana e abbastanza birra trentina da volermi sedere a godermi gli spruzzi del Nettuno di Piazza del Duomo.

Alla mattina del giorno di rendez vous ci siamo incontrati alla stazione e abbiamo preso il treno insieme fino al paesino tra Bolzano e Merano da cui siamo partiti. Non farò una descrizione minuziosa di ogni esperienza dei 10 giorni, sarebbe lunga e noiosa. Parlerò delle mie sensazioni e delle cose che più mi hanno toccato, commosso e turbato. 

Un gruppo di persone diverse tra loro, con approcci differenti al camminare in natura e nel modo di interagire con gli altri. Tutti maschi.  Eravamo in 7, anche se due ci hanno poi lasciato al quinto giorno.  Insieme a Lorenzo c'era Marco, che stava completando il suo tirocinio per diventare anche lui guida escursionistica. Un uomo pacato e positivo che ho imparato ad apprezzare nei giorni seguenti. 

Facilitatore

La sfida principale per me è stata  non isolarmi. Cosa non facile possedendo come già detto una natura piuttosto schiva e solitaria. Specialmente con sconosciuti e specialmente in un ambiente come la montagna. Però avevo anche il compito di proporre esercizi di riscaldamento, defaticamento, stretching. Sessioni di meditazione e di discussione sulla pratica e sulla natura della realtà. Senza alcun obbligo da parte dei partecipanti. Libertà assoluta di partecipare ad una parte o a tutto quello che avrei proposto nei giorni seguenti. 

Ho preparato una serie di riflessioni che avrei proposto all'avanzare del viaggio. Una sorta di programma molto flessibile che si sarebbe adattato alla natura delle persone e alla loro sensibilità. Alcuni sulla preparazione fisica utile a chi fa hiking, altri sulla connessione mente corpo, altri su temi quali Buddhismo e stoicismo. Ho tenuto conto anche della stanchezza, della noia dei partecipanti, della voglia  magari di riposare a fine giornata, o del desiderio di stare per conto proprio in certi momenti. 

L'idea prima di tutto era di non comportarmi da insegnante, non essendo un corso di parkour.  Ma da facilitatore, una figura a metà strada tra un compagno di classe con più esperienza e un docente. 

 L'essere in un ambiente come quello della montagna, in una valle deserta circondata solo da cime, torrenti e sassi ha amplificato nelle persone l'interesse e l'attenzione a certi temi. La propensione all'ascolto. Il primo giorno l'ho lasciato scorrere e concludersi senza proporre nulla, per permettere a tutti di prendersi il proprio tempo. Nei giorni seguenti, in base ai fattori descritti sopra, ho proposto, quando camminavamo, riposavamo o mangiavamo tutti insieme seduti in cerchio, delle attività.

Lunghi giorni e piacevoli notti



E' sempre molto difficile per me descrivere questo genere di esperienze, perché ogni dettaglio mi sembra essenziale e perché come chi ha viaggiato sa bene, il tempo si dilata. Non sono stati 10 giorni nella natura selvaggia, ma settimane. La percezione si...allarga.  Come miele che cola.

I panorami lentamente cambiano. Oggi siamo qua. Ieri eravamo là in fondo. Come è possibile?

Lorenzo indica col dito o più spesso col bastoncino da trekking il passo che abbiamo superato ieri, l'altro ieri. Questa forcella, quel ghiacciaio. Cielo... i ghiacciai!  Serpenti grigio-azzurri  a nord, a ovest, in ogni direzione. Lì il Bernina, là la Presanella. Laggiù il Wildspitze. Noi camminiamo, ci superiamo a vicenda quando qualcuno ha più energia,  a volte rallentiamo quando uno di noi deve mandare un fax ( il termine coniato per indicare il doversi appartare per andare in bagno) e quando succede colgo quei brevi momenti per riprendere fiato, stringere le cinghie dello zaino  togliere un sasso dalla scarpa, e poi, se avanza tempo, guardarmi intorno meravigliato. 

il punto tenda del primo giorno.


Tutto intorno è vento, laghetti alpini, animaletti ed erbe che si sono fatte dure per resistere alle condizioni inclementi dell'alta montagna. Se ti siedi spesso pungono. Ma siamo tutti in pantaloncini, scarpe da trail running, un approccio minimale e veloce. Personalmente mi piace perchè mi fa più vicino alla terra. Il freddo sulla pelle, la rugiada al mattino strusciando contro l'erba, il terreno.  




 I primi 5 giorni 

Durante i primi giorni il percorso era stato pianificato minuziosamente dalla guida in modo che fosse una sorta di preparazione ai giorni seguenti, più tecnici, con maggiori dislivelli e  passando il tempo a quote più alte. Infatti il problema principali all'inizio è stato il caldo, che anche sopra i 2000 metri si faceva sentire, e per non impiastricciarci di crema solare tendevamo a proteggere la pelle con vestiti che offrono un alto valore UPF.
 Questo permette, oltre a non farci diventare delle lumache unte e sudate, di potersi lavare nei torrenti senza inquinarli della crema spalmata sulla pelle. Questo accorgimento, come molti altri (anche il sotterrare la propria cacca facendo un buco con una paletta da ricoprire quando finito) fa parte di di alcuni princìpi importanti da usare in natura, soprattutto ad alte quote dove la decomposizione della materia organica è lenta se non quasi assente. Sono i princìpi del "leave no trace"  e servono a permettere a tutti di vivere e godere dell' ambiente che si attraversa lasciando la minore traccia possibile.  

Fame

Normalmente mangio molto poco, pur consumando una quantità abbastanza alta di calorie, grazie all'allenamento. Questo negli anni mi ha permesso di non concentrarmi troppo sulla dieta, pur mangiando obiettivamente male. E tendo a mangiare ancora meno  quando sono sotto sforzo. Così nei primi giorni avevo poco appetito e dovevo quasi impormi di prepararmi qualcosa a colazione o a cena. Pur consumando 4 o 5000 calorie al giorno, camminando tutto il giorno. Ma poi è avvenuta la mostruosa trasformazione!
Verso il quarto giorno ho iniziato ad avere finalmente fame. Una fame implacabile, rispetto ai miei standard. Pranzavo, mi sentivo pieno e dopo pochi minuti avevo di nuovo fame e sentivo lo stomaco vuoto. Mai successo prima. Ho evidentemente dato uno schiaffo al mio metabolismo facendolo svegliare dopo tanti anni di dieta sempre uguale.  E' stata una sensazione strana e piacevole. Ma insieme a quella il pensiero del cibo ha iniziato ad accompagnarmi più insistente del solito, durante la giornata. Ho raggiunto l'apice  di queste nuove sensazioni quando, al sesto giorno, siamo scesi nell'unico paese incontrato per poter fare il food resupply, il rifornimento di cibo. E nell'unico minimarket del paesino ho iniziato a vagare smarrito tra i pochi scaffali senza sapere cosa prendere, quanto prenderne, immaginando il potere calorico del cibo che mi serviva,  il fatto che non avrebbe dovuto annoiarmi per i prossimi 5 giorni e che non avrei dovuto farmi guidare solo dalla golosità del momento. Tutte sensazioni che ho cercato subito di contemplare come uno spettatore, come faccio quando medito. Osservavo me stesso e queste voglie, questa ansia con vaga curiosità. Ho comprato quella che mi sembrava una montagna di cibo, guardando poi lo zaino già quasi pieno e cercando di immaginare come avrei potuto farcelo stare tutto. Stessa cosa per tutti gli altri. Eravamo alla fermata di un bus, seduti per terra o sulle panchine a spacchettare tutto e a rimpacchetarlo  nei sacchetti ziploc per fargli occupare meno spazio mentre famiglie di turisti ben vestiti e profumati ci guardava di traverso, con le mamme che tenevano ben stretti per mano i propri bambini, non fosse mai che quei tizi strani e puzzolenti se li portassero via. 


Ferite casuali, letti che profumano di menta e caffè

Durante la sera, al secondo punto tenda,  mi stavo togliendo i vestiti per andare a lavarli nel torrente li vicino. Solo pochi metri dividevano la mia tenda dal letto del rio e perché non farli scalzo? Era un piacevole prato punteggiato da sassi ruvidi. Al secondo passo ho sfiorato un sasso col piede e una fettina di mignolo del piede sinistro è letteralmente volato via. Così. inspiegabilmente. Più che il dolore e il sangue è stata la sorpresa. Come se quel sasso fosse stato un opinel nuovo di fabbrica e il mio piede un salamino. Non un grosso problema, ma per altri 4 giorni ho dovuto tenere sempre un cerotto sul dito che sbatacchiava nella scarpa ad ogni passo ricordandomi di imparare a camminare con più prudenza in futuro. 
Ogni giorno abbiamo percorso dai 15 ai 18 km, fermandoci, quando il meteo lo permetteva, in boschi di larici pieni di lichene. 

o in meravigliose valli brulle. Che gli altri sentivano ostili e io più ospitali della mia stessa casa.  


Le mie notti di sonno migliori le ho fatte proprio in queste lande desolate.  Tornando ad avere pochi, semplici bisogni. Cibo, Acqua, Riposo, Calore. Mi fermo su quelli che sembrano solo dettagli proprio perchè nella nostra vita quotidiana queste cose sono scontate, mentre dal secondo o terzo giorno si inizia a capire che sono TUTTO. A casa apriamo il rubinetto e abbiamo acqua pulita infinita, in bagno carta igienica infinta e acqua per il bidet. Apriamo il frigo e il nostro problema è cosa mangiare, non SE mangiare.  Questa è la bastevolezza. Apprezzare l'essenziale. La notte del secondo giorno, sotto il Mandelsplitz, mi sono ritrovato stupidamente a sorridere nel buio mentre mi lavavo il sedere con dell'acqua gelida, in un torrente, sotto una stellata assurda. Gli altri dormivano. Io mi sono sentito completo laddove un altro si sarebbe sentito miserabile.

 Fino quando al tramonto del quarto giorno abbiamo deciso di fare una pausa caffè in una malga e li io ho deciso di meritarmi una doccia calda e un letto, cosa che una volta non avrei mai fatto, tutto rivestito del mio codice morale farlocco che mi avrebbe fatto sentire in colpa. Peccato che ormai mi ero abituato a dormire per terra e ho dormito pochissimo, pur essendo il letto morbidissimo e con le lenzuola che profumavano addirittura di menta. Il sogno di chiunque. Eravamo a 2100  metri e anche gli altri hanno in realtà dormito male quella notte nelle loro tende fuori dalla malga. Troppo caldo. 

La mattina successiva ci siamo alzati alle 4 e 30 perchè per la tarda mattinata davano pioggia e volevamo sfuggirle. Quindi abbiamo fatto una rapida colazione alla luce delle torce frontali e abbiamo affrontato immediatamente la ripida salita al passo che ci avrebbe fatto scavalcare il passo Palù a 2400  e poi avanti e sempre più in alto, fino ad un passo senza nome a 2900 mt che ci ha dato il benvenuto nella bellissima val di Rabbi con vista sulla val d'Ultimo. 

Certe mattine, come quella, le gambe erano pesanti. Di legno. Maledetti macigni, motori ingolfati che non vogliono saperne di partire.  Non è sempre tutto poesia e contemplazione. Spesso le gambe fanno davvero male, i muscoli trapezi cercano di combattere il peso dello zaino che tira giù le spalle rimanendo dolorosamente contratti per ore. Le piante dei piedi dolgono per tutti i km ma anche perchè le mie scarpe erano alla fine della loro vita, stanche e bisognose anch'esse di riposo. In altri momenti si andava forte e i piedi volevano in quelle valli silensiose. Luoghi impervi. Si entrava e si usciva dalle nuvole. Si raccoglie acqua, si mangia una barretta camminando. Il mio grande dispiacere per tutto questo trekking è stato non avere il tempo di fermarmi a contemplare. Ma capivo che c'era una tabella di marcia da rispettare, essendo in gruppo.  Si faceva giorno e ho osservato il sole sorgere su Cima Sternai 3443 metri. Una piramide di roccia di varie sfumature di rossi che la facevano  sembrare un pò il Vinicunca, la montagna arcobaleno peruviana. Ossido di ferro, manganese, granito. 

Poi abbiamo pranzato in un rifugio e appena abbiamo finito si è messo a piovere. siamo rimasti fuori ad ascoltare la pioggia sotto una tettoia mentre tutti si riparavano all'interno. Nello stretto spazio asciutto mi sono steso e ho dormito per qualche minuto, col braccio piegato a far da cuscino. 


Cima Sternai.


una della valli del mio cuore, dove non mi sono potuto fermare quanto desideravo. 




Tutti gli altri giorni. Le alte quote.


Camminando a volte si chiacchierava, altre si creava un silenzio spontaneo. In quei momenti eravamo 7 uomini che camminavano in fila su questo stretto nastro di sentiero  costeggiando montagne nate nel Mesozoico. Ognuno con le proprie speranze e con i propri demoni interiori. Quelli erano i miei momenti preferiti. Guardavo dove mettevo i piedi, ma anche i piedi di chi era davanti a me e armonizzavo il mio ritmo col suo, come un mantra. A volte ero io davanti, e si era tutti  un'unica cosa camminante.  Le sere di quei giorni ho proposto piccole introduzioni alla meditazione. Brevi periodi di raccoglimento seduti in silenzio, per far sentire a tutti il senso dell'essere nel presente senza fare altro. Un'altra sera ho sfruttato la valle dove avevamo messo le tende per invitare tutti a coltivare la presenza introducendo lo stone balancing. Un pomeriggio camminavamo su un pianoro accanto a un torrente che gorgogliava allegro. Li ho raccontato loro dei 3 Segni dell' esistenza ( le tre caratteristiche che condivide ogni cosa della nostra realtà, secondo il Buddhismo. In cambio ho imparato anche io qualcosa. Per esempio che sapore ha l'Acetosella, o che sensazione sa regalare il filo elettrificato delle recinzioni dei bovini. 

 Ho riflettuto molto sull'acqua, in quei giorni. Ne avevamo molta intorno a volte, altre era assente. 
 Col tempo si ri-impara ad apprezzare un bene come l'acqua, nulla è regalato. Nulla, accendendo un interruttore o aprendo un rubinetto.
E' preziosa la possibilità di raccogliere l'acqua dei torrenti ( è necessario cercare dell'acqua pulita e lontana da deiezioni animali, sedimenti o inquinanti). 
Ognuno raccoglie la propria, la filtra, la beve o la usa per lavarsi o per cucinare. Per lavare le proprie stoviglie, i denti, i calzini da usare il giorno dopo. Far bollire dell'acqua per una tisana, per farsi una minestra.  Al quinto giorno era anche troppa. 


Ha piovuto tutto il giorno e ne abbiamo approfittato per riposare in un piccolo bivacchino dove abbiamo solo riposato, chiacchierato, mangiato e dormito. Una sofferenza per chi non è abituato a stare fermo. 


Io ho meditato per quasi tutto il pomeriggio osservando da sotto la tettoia le gocce di pioggia raccogliersi sotto le travi di legno e cadermi vicino. Ho messo il pentolino vuoto sotto di esse e così ho avuto anche la musica. Per tutto il giorno nuvole  nebbia mostravano o nascondevano la catena di montagne di fronte a noi. Ho condiviso una delle sessioni di meditazione con Lorenzo e Luca, che non era mai stato seduto per 15 minuti. Alla fine abbiamo parlato delle nostre reciproche sensazioni. 




Il giorno dopo siamo ripartiti che era ancora buio, sotto la pioggia. Su fino al passo Cercen, con lo zaino pesante di cibo. Abbiamo percorso diversi km in un bellissimo Lariceto ed eravamo già all' interno del parco Nazionale dello Stelvio. Sono rimasto indietro apposta quella mattina (nei giorni seguenti lo avrei fatto sempre di più),  per sentirmi un pò solo e per godere del lichene peloso sui rami dei larici, che da me non esiste. Ogni tanto attingevo potenza dalla bottiglietta riempita di caffè di due giorni prima. Sotto, il prato umido e morbido. Animali che ci osservavano. Ero così felice di essere arrivato fino a là senza dolori. Merito anche delle sessioni di stretching che mi sono imposto di fare ogni sera, per quanto fossi stanco.

Dal settimo giorno abbiamo iniziato a salire sul serio. Valli davvero impervie, senza neanche più le indicazioni dei sentieri. Sopra i 2700 metri  abbiamo notato il colore dell'acqua del torrente cambiare e Lorenzo ci ha detto di caricarci di tutta l'acqua di cui avremmo avuto bisogno per quel giorno, almeno 2 litri e mezzo ciascuno. 



 Risalendolo il torrente si è lentamente trasformato in un ruscello in pendenza, poi in cascata e le rocce che bagnava erano biancastre. Strano. Nel frattempo è comparsa sopra di noi una famiglia di stambecchi.


Risalendo ancora siamo arrivati a uno spettacolo surreale e silenzioso. 

Il laghetto dalla bellezza misteriosa e quasi inquietante.

Un senso di euforia mi ha preso quando per ultimo, in coda alla fila, l'ho visto. 





Abbiamo dovuto portarci tutta l'acqua di quel giorno in spalla, perchè quel bel colore significava elementi minerali o metallici disciolti nell'acqua. Meglio non rischiare.

Oltre i 3000


Il canalone



Poco dopo abbiamo incontrato una  pietraia veramente infame, con sassi grossi come una piccola auto che ballavano. E oltre è iniziato il tratto più tecnico di tutto il trekking. Un canalone largo 2 metri fatto di sfasciumi e ghiaia che franavano. In quell'occasione la maledetta via ferrata fatta con Perez qualche anno fa (che negli ultimi 30 metri era franata e quindi in quell'occasione fummo costretti a fare arrampicata libera) si è rivelata utile, facendomi sembrare quel canalone una passeggiata. Così dopo aver chiesto il permesso alla guida di poter andare avanti me lo sono fatto praticante di corsa, arrampicando agilmente fino in cima mentre gli altri si aiutavano a vicenda per superare i punti critici. 

Arrivato in cima ho potuto prendermi del tempo. Tempo per rimanere turbato.




In cima al passo, superati i 3100 metri, c'erano reticolati di filo spinato vecchi di 100 anni che dividevano ancora quello che era il territorio austro ungarico da quello italiano. Ho dovuto camminare con attenzione perchè per quanto quasi polverizzato dalla ruggine era ancora pericoloso. Poco più in alto ho trovato il bivacco della grande guerra dove avremmo passato la notte. Qui mi sono aggirato tra i vecchi ruderi, Altro filo spinato, bossoli, ossa. Ossa umane. I segni della prima guerra mondiale qui erano ancora ben visibili. Un tema che mi ha sempre colpito. Ma non ne avevo ancora visto resti così numerosi come qua. E così in alto. Che genere di vita devono aver vissuto i soldati, qui, abbarbicati a oltre 3000 metri con  un cappotto di lana e poco altro? Magari in inverno, con metri di neve. Aspettando il prossimo assalto notturno o temendo colpi di artiglieria, mentre si stringevano contro i muretti a secco eretti per proteggersi dal vento tagliente?  Mi sentivo smarrito e piccolo. Poi gli altri sono arrivati e siamo entrati nel bivacco insieme. 
Anche il bivacco era un vecchio riparo della prima guerra mondiale ristrutturato dagli alpini della zona.  Ci ha offerto dei letti, una piccola stufa e una scorta di legna asciutta. Ne abbiamo comunque portata un pò da fondo valle per rimpinguare le esigue scorte. Durante il pomeriggio abbiamo riposato e pranzato.  A quella quota l'acqua  bolle davvero molto prima dei 100 gradi, e il sole picchia in modo aggressivo quando compare tra le nubi. I vestiti messi ad asciugare erano secchi in pochi minuti. Poco dopo il pranzo mi sono seduto in disparte a scrivere sul taccuino i fatti del giorno, il percorso fatto e riflessioni varie. Sotto un sasso ho intravisto un topolino che cercava resti di cibo sotto le panche e gli ho regalato un biscotto. 
Nel tardo pomeriggio ho meditato prima da solo poi con Lorenzo e Marco, facendo una sessione più lunga del solito. E' stata la sessione di meditazione in esterna più silenziosa che abbia mai sperimentato.  Le rocce taglienti sulle quali eravamo seduti costringevano  a rimanere nel presente.  Ma essere a quella quota era come essere su un aereo: le nuvole ci passavano vicino, oscuravano o poi mostravano il sole e le montagne intorno, i ghiacciai lontani e le valli molto più in basso.







La notte grazie ai tappi che uso per dormire non ho sentito nè il vento che fischiava tra le assi di legno piegate dal tempo nè la pioggia che cadeva. Mi sono immaginato la straordinaria stellata che avrei potuto ammirare se il cielo fosse stato sereno. Una mattina gelida e ventosa ci ha accolti e siamo riusciti a vedere sprazzi di alba tra le nuvole. 












Poi è iniziata la lunga e dolce discesa verso il Passo Gavia entrando in Lombardia. Ottavo, nono giorno. Li ricordo perchè da quel momento la compagnia ha iniziato a pesarmi e il bisogno di stare per conto mio ha iniziato a farsi prepotente. Quel pomeriggio, scendendo da una ripida pietraia il ginocchio ha iniziato a farmi male, ho preso un paio di mini distorsioni dovute alla stanchezza e alla fretta. Tutti correvano. Perchè? Non capivo più quella fretta, quel rotolare giù come sassi, come fosse una gara. C'era così tanta bellezza intorno da vivere, da vedere, dalla quale farsi commuovere...

Vedevo rosso. 

La rabbia mi aveva colto e per una buona ora sono rimasto in silenzio e furioso con loro per questo modo di fare e con me stesso per il mio arrabbiarmi in un luogo tanto bello. Quando siamo arrivati al punto tenda di quel giorno, nei pressi di un bivacco chiuso, ho immediatamente agito appena gli altri si sono allontanati per lavarsi in un torrente. Ho cominciato a respirare, lavandomi a mia volta con una bottiglia d'acqua presa da una fonte. Gelida. Mi sono asciugato con lentezza deliberata, poi mi sono vestito ancora più lentamente. Con gesti lenti e misurati ho camminato fino al mio zaino per prendere i vestiti puliti. Pochi altri passi per tornare alla fonte e ho lavato i vestiti sporchi come se fosse l'ultima azione che avrei potuto compiere in questa vita. Agire così è per me esattamente come meditare immobile seduto a gambe incrociate o lavare i piatti: un antidoto al veleno per il cuore che è la rabbia. Una vecchia amica dalla quale sto lavorando per allontanarmi. Ha funzionato. In meno di un'ora la mente era pacificata. I ragazzi sono poi tornati e abbiamo cenato insieme e ho guidato una lunga sessione di stretching, mentre il sole tramontava dietro le cime.  Era il penultimo giorno, quasi la fine del viaggio. E la rabbia non aveva vinto. 



La mattina dopo abbiamo affrontato gli ultimi passi in un continuo saliscendi immersi nella nebbia. Io per tutta quella mattina sono rimasto un pò indietro quel tanto che bastava  perdere di vista i ragazzi davanti a me nelle nuvole, ma non tanto da ricomparire ai loro occhi se, preoccupati, si fossero fermati.  Per alcuni km il sentiero costeggiava un ripido versante con alcuni piccoli tratti franati, e in caso di caduta nessuno avrebbe potuto fare niente. Tanto valeva almeno non perdersi di vista e rimanere uniti. Ma il bisogno di ascolto era troppo forte, non potevo più ignorarlo. C'era una valle senza nome che ho segnato sulla mappa. Un piccolo pianoro senza nome, banale agli occhi degli altri. Là, con la scusa di dovermi assentare per qualche minuto per "mandare un fax", mi sono seduto mentre gli altri andavano avanti e mi sono preso qualche minuto per imprimermi dentro quelle curve erbose, quei sassi. un paesaggio coì perfetto proprio perchè asimmetrico, naturale, non artificiale. Senza segni umani a parte il nastro del sentiero. 

Quella bellezza era esattamente Wabi-Sabi.

Alla fine di quel giorno ci siamo accampati al limite di un paese, per poi scendere ancora un pò per regalarci una pizza che ci è stata consegnata direttamente nell'ultimo posto tenda di questo viaggio... nel campo da calcio di un paesino. Terreno morbido e pianeggiante. Quella notte ho dormito poco, agitato da strani sogni tristi e romantici. Però stavo bene. Ero arrivato a macinare tappe da 24 km con 1600 mt di dislivello. Le gambe si stavano abituando.
La mattina dopo ci siamo incamminati con la consapevolezza di puzzare come delle carogne e di dover smontare le tende per l'ultima volta. Pochi km dopo eravamo nel paese. Ho imparato tanto su di me in questo breve e lungo viaggio, così intenso per noi. Mentre al di fuori il mondo viveva dieci normalissimi giorni per noi il tempo era dilatato. Abbiamo tratto lezioni da ogni particolare che Lorenzo ci ha insegnato sull'acqua, sui cibi da portare, su come comportarsi con vipere e altri animali, su come trattare le vesciche, come camminare meglio. Questo mentre facevamo gli ultimi kilometri su un sentiero dolce che scendeva verso il paese finale. Infine strade asfaltate, rumore, smog. Nella grande ragnatela di binari che segnano il nord Italia ognuno ha preso la sua strada per tornare a casa, portandosi dentro la propria lezione. 


Mi mancano già le montagne. 













 

sabato 23 dicembre 2023

Rituale del solstizio d'inverno

 



L'autunno e l'inverno sono le mie stagione preferite. Sento un legame col freddo, con gli alberi liberi dalle foglie e con l'aria tersa e pungente. Quasi tutte le notti in cui ho dormito nel bosco le ho fatte in questo periodo, dove, libero dagli insetti e dalle masse di escursionisti rumorosi, posso guardare la luna filtrare tra i rami in pace.

Solstizio d'inverno: il giorno più corto dell'anno, quello in cui il sole appare più basso sull'eclittica. Un  fenomeno dovuto all'inclinazione dell'asse terrestre ma che ha formato culti e religioni da migliaia di anni.

 Per celebrare il primo giorno di inverno ho deciso di eseguire un rito. Ho scelto di fare l'ennesima notte fuori, mentre le altre persone passano il venerdì sera a bere spritz nei locali o sul divano a guardare la tv. Ma ho deciso di eseguirlo con vari passaggi:

  • raggiungere il luogo del rituale al buio, camminando su per la montagna guidato solo dalla luce della luna, che in questo momento è nella fase di gibbosa crescente;
  • arrampicarmi su qualche albero al buio, contando solo sul tatto e sulle ombre e luci prodotte dalla luce della luna tra i rami;
  • passare la notte fuori senza accendere il fuoco e con equipaggiamento mediamente minimale.



Lasciata l'auto all'inizio del sentiero, mi sono sentito un cretino ad aver avuto questa idea. Il sentiero appariva assolutamente nero. Il vento faceva scricchiolare gli alberi muovendone la cima, lassù. Pochi minuti dopo però gli occhi hanno iniziato ad abituarsi, ma il timore di stare in un ambiente ostile è giustamente rimasto. Mentre camminavo istintivamente con più attenzione e più lentamente ho osservato questo timore, frutto della specie a cui appartengo, quella umana,  che non è notturna. Inoltre sono leggermente miope, quindi non se ne parlava di fare affidamento sulla vista. L'unico vero rischio in realtà ho scoperto essere i rami sottili dei faggi sospesi ad altezza occhi sul sentiero. Invisibili, troppo sottili per avere sostanza alla luce della luna finiscono facilmente negli occhi. Nel bosco, di notte, ci si sente giustamente una preda, e si agisce di conseguenza: camminavo lentamente, mi fermavo spesso col fiato sospeso per sentire rumori anomali, per poi proseguire con calma. 



Lentamente il timore è andato scemando ma sempre tenendo le orecchie ben aperte per evitare incontri troppo ravvicinati. 
Ho preso in considerazione la possibilità di incontrare cervi o cinghiali, ma l'importante è non incontrarli quando è troppo tardi per non farli sentire minacciati. Inoltre col vento sarebbe stato difficile sentirli camminare sulle foglie secche. Infine sono arrivato alla mia meta, e dopo aver scaricato lo zaino ho iniziato ad approcciare qualche albero. 
La sensazione è stata molto particolare. Inizialmente ci si sente insicuri, poichè pur con gli occhi abituati all'oscurità non si distingue bene dove sono i rami cui aggrapparsi, confusi nella prospettiva. Ho allungato una mano, sicura che avrebbe sentito la corteccia rugosa del faggio, stringendo un'ombra. Quindi le prime salite e discese sono state caute e senza salire troppo. Dopo averne fatte un paio anche con la torcia frontale, per poterle condividere sui social, l'ho lasciata a terra e sono risalito. 
Salivo, e guardando in alto tra i rami la luna mi aspettava. Ero su un faggio abbastanza alto, forse potevo toccarla, mi sono detto. Salivo tra rami morti e vivi, lentamente. I piedi nelle forcelle. Le mani a stringere i rami il meno possibile. 
 La luna si avvicinava. Potevo quasi toccarla.


Raggiunta la chioma, sono sbucato con la testa in cima al faggio. Guardandomi intorno la sua luce inondava  tutte le montagne intorno, poi i paesi giù a valle e in lontananza le montagne coperte di neve, ma sopra di me, la luna non si è voluta far toccare. Questa impossibilità mi ha commosso, in quel momento. 
Sono rimasto qualche minuto così, dondolato da un vento tiepido che faceva oscillare l'albero a cui ero aggrappato.
C'e' una bellezza nel luogo che frequento spesso, (quello che io chiamo il mio eremo), difficile da descrivere. In inverno questo altipiano ricoperto di faggi e punteggiato da massi di granito vulcanico offre al contempo uno spot incredibile per allenarsi, un luogo perfetto per meditare, uno spazio per fare pratica di tecniche di bushcraft e una casa per me, persona inquieta che non ama stare chiusa in casa. Io mi sento nel luogo giusto, quando sono lì. 


Assaporando sempre quel senso di mistero impenetrabile che sento quando sono tra i sassi, come se sussurrassero cose importanti in una lingua che non sono in grado di capire, sono sceso dall'albero. Ho preparato il rifugio per la notte e mi sono cucinato la cena col fornello. Troppo secco e troppo ventoso per fare un fuoco in condizioni di sicurezza. 
La luna era sempre li, mentre cenavo guardandola. Poi una tisana prima cdi infilarmi nel sacco a pelo. Le foglie secche sono venute a farmi il solletico. 




La notte è passata con  qualche risveglio brusco, quando una folata faceva sbattere il telo, ma non avutro incontri con animali. L'alba del secondo giorno d'inverno mi ha accolto rossa e meravigliosa alle 7 e 40, inondandomi di luce dal mio cantuccio caldo 




Dopo colazione ho meditato un pò e sono sceso a malincuore verso casa. Il rituale è stato compiuto!



"Mentre l’Italia sgomita nelle ferie, io quassù, da solo, sto bene, ma è difficile. La solitaria vita di un eremita poco deciso è ardua. Da un lato la bellezza del luogo, con unici interlocutori gli animali del bosco, gli uccelli e i corvi imperiali che lasciano cadere i loro cra come sassi sulla testa. Dall’altro, il richiamo della gente, della fama, della visibilità. Due forze che tirano la corda con questo vanitoso in mezzo a farsi dilaniare. Ma prima o dopo resterò quassù, magari per sempre, sepolto sotto un larice (le ceneri) coi cervi che mi fanno la cacca sopra. E i cinghiali che raspano per cavarmi fuori perché gli sto sul cazzo e la neve che eviterà tutto questo, coprendomi e tenendomi al calduccio. "
Mauro Corona, I segreti della montagna