sabato 9 agosto 2025

Translagorai, la mia sfida alla lentezza.

 Sono tornato ieri da un'esperienza intensa, anche se breve, rispetto ad altri trekking o viaggi. E ho aspettato alcuni anni prima di compiere questo trekking perchè aveva fama di essere duro, rischioso e solitario. Quest'anno, forte dell'esperienza del thrualps dell'anno scorso, del Laugavegur in Islanda di due anni fa e di altri trekking e test fatti nei mesi precedenti, mi sono sentito pronto per questo. 

La Translagorai è un' alta via lunga 80 km con circa 5000 m di dislivello positivo che inizia da Panarotta, sopra il comune di Levico Terme fino al Passo Rolle, a ridosso delle bellissime Pale di San Martino, sviluppandosi da sud-ovest a Nord est. A differenza delle aree dolomitiche circostanti, il Lagorai ha pochissima pressione antropica.  Sono presenti malghe, qualche  rifugio e alcuni bivacchi. I protagonisti sono i giganti di porfido, duro e inospitale, trincee e baraccamenti della prima guerra mondiale e molto silenzio. La mia intenzione era ambiziosa: non solo completare un trekking in solitudine e in autonomia( senza quindi appoggiarmi a nessun rifugio) , ma anche e soprattutto compierlo con lentezza, coltivando la presenza mentale, l'essere qui e ora in ogni momento possibile e  il farlo lentamente. Di solito, per la passione che mi prende quando cammino in montagna, inizio a un certo punto ad andare di fretta. Un pò per stanchezza, un pò per una sorta di spinta ad andare avanti ancora e ancora, forse proveniente dall'abitudine col parkour, oppure una sorta di volontà di fuga dal disagio accumulato nei giorni precedenti. Non so e non è importante. Quello che contava stavolta era evitare questa fretta, per non pentirmi, una volta tornato a casa, di non aver vissuto pienamente l'esperienza, come accadde in Islanda.

Una volta presa la decisione di farlo è iniziata la pianificazione. Normalmente tendo a organizzare le cose in modo un pò superficiale e lasciare il resto all'avventura, ma in questo caso avrebbe potuto significare finire il cibo, soffrire il freddo o il caldo, non avere acqua. In sostanza fallirlo. Quindi dopo aver letto qualche resoconto di chi lo aveva già fatto o fallito ho chiesto al buon Lorenzo, la cui casa e palestra è proprio il Lagorai, di darmi tutte le dritte possibili. E' stato molto paziente con questo stalker sempre combattuto tra il voler essere forte e il voler essere ultraleggero. Mi ha dato informazioni sul percorso, sui punti tenda e acqua, sulle criticità del percorso e sulle varianti alte e basse che avrei potuto imboccare in caso di necessità o bisogni ( spiegherò più avanti). 

Il secondo grande punto è che in questo periodo Subhuti, il mio amico e coinquilino gatto non sta bene, e un gran peso nel cuore mi ha accompagnato nei primi due giorni di viaggio. Ogni passo era più pesante, la mente vagava e tornava spesso a lui e alla gentile amica che se ne è occupata in  quei giorni e che era in sbattimento perchè Subhuti purtroppo bullizza gli altri gatti di casa. 

 Il terzo punto era la logistica. La Translagorai ( da ora TL) inizia sopra un paesino, che sta sotto un paese, che sta lontano da una città, Trento. E finisce in un paesino di montagna  poco servito dai mezzi.  Ed io odio pianificare la logistica di partenza e arrivo. Io voglio avere lo zaino pronto e teletrasportarmi da casa all'inizio del sentiero. Fine. Ma questo non è possibile, quindi mi sono segnato mezzi, orari, parcheggi, coincidenze e cambi. Tutti fattori che rompono le balle e che accumulandosi rischiano di rovinare tutto, soprattutto coincidenze di treni e bus. Così ho deciso di andare in auto fino a Trento. Più comodo del treno, per tempi e orari. Ma tutto ha un prezzo e lasciare lì l'auto significa necessariamente doverci tornare a fine trekking. Tutto ciò come scoprirai non sarà un problema alla fine. 

Ultimo punto: equipaggiamento e zaino. Il punto più divertente per me che sono un nerd dell'attrezzatura da hiking. In sostanza si può ridurre tutto a un'equazione: avere lo zaino più leggero possibile ma avere tutto il necessario, compreso il cibo per 5 giorni. Se lo zaino pesa tanto ogni cosa diventa più faticosa, le ginocchia si infiammano, l'esperienza diventa più miserabile e rabbiosa. Se lo zaino è troppo leggero rischio di soffrire il freddo e il caldo, la fame o la sete, o di non dormire. Quindi di dover rinunciare prima della fine.  Sta tutto lì. Trovare l'equilibrio. Senza fare una lista completa del mio materiale (che è personale e potrebbe non andare bene a tutti)  alla fine ho trovato una quadra tra le necessità personali e quelle date dalla natura del percorso. Considerando la completa autonomia elettrica, alimentare, di acqua e una attenta scelta di vestiti e materiale ecc.. il mio zaino alla partenza pesava  circa 5 kg. Che diventano 10 col cibo per 5 giorni e circa 11 o 12 in base a quanta acqua avevo. 13 nelle sezioni con meno acqua.

Giorno 1

Dopo una notte insonne (negli ultimi anni ho il sonno sempre più leggero e incostante) sono partito alle 3:30 di mattina da Varese direzione Trento. Lasciata l'auto in un parcheggio gratuito ho camminato fino alla stazione da dove ho preso un bus per Levico Terme e da lì la navetta per la Panarotta. Alle 11 ho iniziato a camminare e lo zaino carico si è fatto sentire. Ma il sentiero all'inizio era scorrevole, poi il panorama superava le mie aspettative. Mano a mano che la giornata andava avanti però la mancanza di sonno ha iniziato a farsi sentire e così i dislivelli. Un pò di nausea e qualche calo di pressione che mi faceva vedere coriandoli neri, mentre salivo in quota e scendevo dalle pietraie, cercando  comunque di rimanere presente. Rimanere presente significa anche questo. Iniziare ad accettare la fatica, il disagio, come parte della vita e come una cosa a suo modo da assaporare. Come si apprezza un sapore nuovo assaggiando cibi esotici non ci si sottrae dall'amaro o dall' aspro che questa vita ci offre. A ogni passo fatto accetto quello che offre il menù. Avevo come sfida la presenza mentale anche perchè volevo completare tutto il trekking senza mai prendere una storta ( cosa che invece di solito mi capita, quando sono stanco o di fretta su terreni insidiosi). Questo è possibile, ma richiede uno sforzo costante. Come vivere una giornata qualsiasi con tutti gli impegni della vita normale ma prestando costantemente o quasi attenzione al proprio respiro. Alla fine del pomeriggio la situazione è migliorata un pò e  ho percorso 16 km piantando la tenda alla baracca militare dopo il passo Palù. Lunga sessione di stretching e poi doccia e cena. Doccia fatta con una bottiglia, naturalmente. Quella è stata l'unica notte in cui ho dormito quasi bene, alzandomi alle 3 per fare pipì e per vedere le stelle. 






Giorno 2
La mattina sono partito intorno alle 7 e 30 ( dormendo poco ho imparato a sfruttare questo problema per alzarmi molto presto e poter camminare più piano durante il giorno), troppo tardi per godere dell'alba ma abbastanza presto per vivere le prime luci del mattino illuminare le cime e camminare nella pace della solitudine. Già. 
La solitudine.
"Una casa solitaria. Lei non si sente mai solo sergente? "Solo in mezzo alla gente". "Solo in mezzo al gente". -La sottile linea rossa
Una delle esperienza che più ricerco quando faccio trekking lunghi è la ricerca della solitudine. Ma senza l'accezione negativa che anche io gli ho sempre dato e che è uno dei grandi temi della mia vita e di questo blog. La solitudine in montagna è l'apprezzare il potersi guardare intorno per chilometri e chilometri e avere intorno solo cose non toccate e non prodotte dall'uomo, incluso altri uomini. Il sentirsi liberi dal dover tenere aperte conversazioni banali. Libero dai clacson delle auto, dal grigio dell'asfalto che taglia il mondo come sottili nervi- Libero di stare in silenzio senza che sembri un bambino che tiene il broncio per protesta. Nella solitudine sono libero di essere me stesso come non si può pienamente essere quando si interagisce con qualcosa di umano, è inevitabile e normale. Se ti guardi dentro lo vedrai anche tu. Camminando da solo posso seguire linee di pensiero non per minuti, prima che una distrazione lo faccia sfumare in un altro, ma per ore, giorni. Queste linee di pensiero portano a idee che non sarebbero arrivate ( e che non mi arrivano ) stando in casa, per strada in città, o altrove. Posso camminare, posso fermarmi, posso cantare parlare o tacere senza dover spiegare a nessuno. Da solo in un lariceto o in cima un passo a 2500 metri posso affrontare le mie paure con sincerità, paure che ho anche io come tutti naturalmente ( a chi mi chiede come faccio a passare da solo le notti nel bosco rispondo-di nuovo e per forza- con convenzioni).
Qui quella ricerca ha potuto realizzarsi in pieno. Per giorni, imboccando le giuste varianti alte o basse, magari meno battute perché più faticose o più lunghe, ho potuto assaporare il sentirmi solo. Senza il vuoto della pianura islandese, ma con una natura aspra e intagliata dai venti e dall'acqua a guardare questa formichina umana percorrerne i sentieri con uno stupido sorriso stampato. 
La mattina l'orizzonte si era liberato dalle nubi mostrandomi bene le dolomiti del Brenta in tutta la loro maestosità. Sono strane e diverse dalle montagne che conosco, queste dolomiti che vedo. Denti grigi e bianchi all'orizzonte che danno un senso di enormità anche da lontano.  Il carbonato doppio di Calcio  Magnesio che dà quella strana lucentezza. Le montagne delle mie zone mi sembrano quasi spente ora, a guardarle.  Comunque avrei cambiato idea il giorno dopo, quando superando l'ennesima forcella avrei visto per la prima volta La Marmolada, il Civetta e le altre cime delle dolomiti Bellunesi, il Focobon che sembrava qualcosa della Patagonia. 
Dopo aver superato passo Cagnon, Cadin, e molti altri, sono passato dal rifugio Manghen, l'unico in cui sono sono entrato in tutto il percorso dove si trova l'unica strada asfaltata di tutta la TL. Con la scusa di prendere un caffè ho potuto eliminare un pò di spazzatura che avevo. Invece di darmi la carica,  il caffè sembra mi abbia stancato, e ho fatto molta fatica a riprendere il passo nel sentiero, pur non essendo così duro. Forse perchè è bastato un giorno di silenzio per farmi odiare aver visto troppe persone, sentito moto sfrecciare e ciclisti bestemmiare. Ma dopo un pò per fortuna è tornato il silenzio. Il sentiero si è fatto di nuovo scorrevole e sono passato accanto al lago delle buse, uno dei possibili punti tenda che avevo immaginato. Mentre camminavo però ho ripensato sorridendo all'iniezione di entusiasmo che mi ha dato un signore sorprendentemente simile al capitano Picard che mi ha fatto i complimenti per quello che stavo facendo. Lo ha fatto con sincerità , guardandomi negli occhi e parlando seriamente. L'ho sentito forte. Ho camminato ancora un pò, stavo bene, così ho proseguito e ho piantato la tenda al lago delle Stellune.  Quella sera mi sono dedicato a un'intera ora di stretching, per poter camminare bene il giorno dopo, sapendo che la terza tappa sarebbe stata molto dura.
bivacco Manghen, giusto il tempo di una merenda. 



best pausa pranzo e asciugatura tenda ever.



Giorno 3

La sera, nella mia tendina, riflettevo sul percorso da fare il giorno dopo. Avrei potuto evitarmi la fatica delle cime e farea la variante bassa, poco battuta perchè meno epica. Però io volevo salire. Volevo sentire il vento. Ero molto indeciso. La mattina, quando ho sbaraccato alle 6, mentre tutti gli altri nelle loro tende dormivano, sono rimasto un paio di minuti davanti al cartello che segnava il bivio. Mi sono guardato intorno, speravo di non vedere ancora nessuno uscire dalle tende. Poi la chiamata ha prevalso. Siano le cime, la fatica, l'epicità. Si và a sinistra verso l'alto. Per fortuna che l'ho fatto. è stata una delle tappe più belle che abbia mai fatto. I panorami che mi sono stati regalati sono andati oltre i sogni che avevo fatto. Ovviamente in ogni perdita c'e' un guadagno e in ogni guadagno c'e' una perdita. La tappa per essere bellissima non poteva che essere anche durissima. Lunga ed estenuante. Alle 8 il sole già picchiava in quota, pur essendoci solo 5 o 6 gradi stavo sudando molto. E' una strana sensazione sentire che fa effettivamente freddo ma sentire anche il sole che scotta attraverso la sun hoodie ( un esperimento che ho fatto per vedere se funziona.) Ho continuato a salire sul duro porfido fino ai tratti attrezzati con scalette e corde, arrivando a un certo punto ad un tratto in cui ho lasciato un pezzo del mio cuore. 
Una sorta di tavolato storto di pura pietra e cielo senza una nuvola. Non una voce, neanche di marmotta, lassù. E l'impressionante vista di centinaia di cime. Alcune vicine, altre lontanissime, come il gran Zebru, il Cevedale, alcune cime venete e austriache. Nessun segno di civiltà . Essere tra così tante cime e così alte nascondeva quasi tutti fondovalle, liberandomi dalla visione di strade e case.












Quella mattina, invece del mio solito borbottare e parlare da solo, sono rimasto in silenzio. Mi sono goduto la vista di quei panorami, ma ho anche riflettuto guardando i segni della grande guerra, che qui c'e' stata davvero. Filo spinato, ossa umane, baraccamenti tirati su con sassi a secco per riparare i soldati dal freddo ben 110 anni fa. Chiodi di ferraccio ancora piantati nella roccia, più duri del nostro moderno acciaio temprato.  Mi sono immaginato come deve essere stato il rimbombo e le eco dell'artiglieria, qui. qualcosa di impressionante. Avere fame qui. Essere feriti qui. Avere freddo, qui. Con scarpacce di tela e impermeabili di tela cerata. 

Poi è iniziata l'infinita, calda e dura discesa che mi avrebbe poi riportato in quota solo a fine giornata. Prima fino al passo Sadole dove dopo pranzo sono entrato in coma per 5 minuti.






 Il terzo giorno ho fatto 24 km con circa 2400 metri di dislivello. Morto. Pensavo di avere caldo in quota.  Poi sono sceso nel lariceto, che comunque era a 1800 metri, e volevo che mi sarebbe venuto un colpo. Ci si abitua presto al fresco. Sono caduto nel fango cercando di raccogliere acqua da filtrare. Ho superato parecchi alberi caduti che qui non sono stati tagliati per agevolare il passaggio, essendo un sentiero poco battuto. 

Poi ho deciso di mettere un pò di musica. Erano le 18 e stavo camminando dalle 6 di mattina. Mi sono voltato a sinistra. Un albero dalla forma particolare sembrava un obelisco eretto in onore di una nuvola, traslucida, la cui cuspide sembrava volesse toccarlo. Il sole era dietro l'albero. E nel telefono è partita la canzone del padre di De Andrè. E' stato un momento mistico. 


Mancava ancora un'ora  e mezza e 300 metri di dislivello al lago delle trote. Sono andato avanti come uno zombie, col cervello spento. Infine sono arrivato. Ero troppo stanco anche per montare la tenda. Ho deciso di fermarmi al bivacco Coldosè, anche se era pieno di ragazzi. Pensavo che avrei dormito da dio su un materasso, essendo così stanco. Invece qualche bestia mi ha tormentato le gambe per tutta la notte (non oso immaginare il livello di igiene su quei materassi, e io non avevo un sacco lenzuolo, solo il quilt che sotto è aperto) facendomi grattare a sangue. La mattina alle 5 ( si, sempre più presto) mi sono fatto un porridge piuttosto insipido e sono ripartito, deciso ad andare ancora più piano. C'e' da dire però che quel giorno non ho avuto scelta sui km da fare. Non c'erano punti tenda decenti lungo il percorso, è stata una tappa forzata. 

segni della grande guerra



Bivacco Nadia Teatin.

Cima d'Asta al mattino.

Giorno 4




Dal bivacco Coldosè in un minuto si scavalla e ci si trova il lago delle trote, che come ogni laghetto alpino ha qualcosa di magico, al mattino. E ho proseguito lungo il crinale che mi avrebbe portato in quota. Partendo sempre presto ho potuto anche oggi rimanere da solo e in pace a infradiciarmi i piedi con la rugiada delle piante ai lati del sentiero, cariche d'acqua. Attraversando una valle anonima e desolata mi sono fatto qualche foto e mi sono fermato un momento a godere del panorama verso sud e di alcuni fiori di montagna pelosetti, che resistono stoicamente al freddo e al vento, anche se sono così delicati al tatto da sembrare di zucchero filato.  Poi il tempo è cambiato. Pesanti nuvole sono salite dal fondo valle avvolgendo tutto in una nebbia fredda e umida. Sono arrivato al bivacco Paolo e Nicola un paio d'ore dopo sperando di farmi un caffè prima di continuare, ma sera pieno zeppo di gente che dormiva e per non disturbarli sono rimasto fuori a farmi una tisana seduto sul legno bagnato di nuvole, mentre mi sono tolto le calze fradice per far asciugare un pò i piedi,  cotti da due giorni di calze bagnate. La parte disagevole è sempre rimettersi poi le calze e le scarpe bagnate, che ora erano anche fredde. 
Da lì avevo una scelta da fare, l'ennesimo bivio: salire e fare la variante alta, dove però non mi sarei goduto il panorama, essendo tutto immerso nelle nuvole o fare la variante basse, poco battuta proprio perchè non panoramica. Tanto valeva fare la seconda, che mi avrebbe fatto risparmiare un pò di inutile dislivello. E' stata anche questa volta la scelta vincente, e forse è stata la mia sezione preferita, per quanto non facile, avendo dovuto attraversare parecchie pietraie e sfasciumi di roccia. sono sceso perdendo un pò di quota e come detto è stata una traversata lenta a causa delle pietraie. Però è stata in qualche modo...mistica. Mi sono trovato per alcune ore completamente immerso nelle nuvole, in questo paesaggio fatato. Prati silenziosi, di un silenzio irreale, con un sottofondo lievissimo di un torrente che scorreva. Fiori setosi di Erioforo negli acquitrini. E' stato uno dei momenti e dei passaggi più belli di questo viaggio.






Poi di nuovo una discesa in una valle senza nome dove a tratti si apriva, per poco, il paesaggio mostrando il fondo valle. Molto taoista. Poi una nuova salita fino alla forcella Valcigolera. Torrenti tranquilli dove ho attinto acqua. Pensieri che andavano e venivano. E naturalmente nessuno intorno per tutto il giorno. A Valcigolera mi sono fermato un attimo anche per prendermi cura dei piedi, che stavano diventando un hot spot unico.
In quel momento ho provato a togliere il telefono dalla modalità aereo per mandare un paio di messaggi, dopo due giorni senza connessione. C'era il 4G, incredibile. E appena connesso mi è arrivata una chiamata da un call center. non esiste pace neanche dentro una nuvola a 2400 metri sulle Dolomiti.
Tolto subito la connessione ho scoperto che mancavano, volendo, circa tre ore al passo Rolle, la fine della mia TL. Solo tre ore. ma ero stanco. E soprattutto mi ero dato come obbiettivo quello di non avere fretta. Anche perchè se fossi arrivato al passo Rolle nel tardo pomeriggio forse non avrei avuto mezzi per scendere. Un motivo in più per prendermela con calma. Mi sono seduto a meditare. Il corpo fremeva, voleva continuare a muoversi. Pensieri turbinavano. Tutti pensieri di movimento, di azione. Mi sono imposto di respirare, rilassare i muscoli trapezi e stare semplicemente là, in cima al passo. Immobile come un omino di sassi. 



Così ho deciso di continuare a camminare fino a quando avrei trovato un posto decente dove piantare la tenda. Ho raggiunto infine l'ultima, l'ultimissima forcella di questo trekking. Tra le nuvole pesanti si intravedeva la strada del passo Rolle e un pò mi sono commosso. Ma stava iniziando a piovere. Proprio mentre ero in mezzo a una vecchia pietraia. Vecchia è bene perchè significa che 1 è assestata e praticamente ferma, 2 negli anni si è accumulata un minimo strato di terra, che ha permesso la formazione di un substrato adatto all'erba. Ho trovato un angolino di prato tra alcuni sassi e lì ho piazzato la mia tendina, su terreno tutto storto. Ma meglio di un calcio in bocca. 


Erano solo le 16 e fuori dalla tendina pioveva. Niente da fare se non far fuori tutto il cibo rimanente, leggere e aspettare. Un'opportunità in più per coltivare la presenza, che in questo significava solo annusare me stesso e i miei vestiti unti e sporchi di 4 giorni di trekking e ascoltare le gocce di pioggia battere sul dyneema della tenda. Ho dormito un pò un sonno interrotto spesso dalla pioggia o dallo scivolare  fuori dal materassino in pendenza. 

Giorno 5

Ho letto un romanzo e dormicchiato fino alle 3 del mattino. alle 4  ho fatto due calcoli e ho immaginato di arrivare, camminando con estrema calma, al passo Rolle per le 6 e mezza, poco prima dell'alba. Perfetto. Così ho sbaraccato la tenda e rifatto lo zaino, poi ho provato a meditare ma ho resistito solo 5 minuti. Anche qui il corpo e la mente fremevano. Sono partito. E lì l'errore. Dopo quasi 80 km e circa 120000 passi, ho preso una mini storta praticamente al primo passo fatto. Niente di grave ma ho visto sfumare il mio obbiettivo delle zero storte. La causa è semplice. Non il buio, che ancora avvolgeva la pietraia. Non il terreno bagnato. Ma la mia distrazione. Non ero presente, ho iniziato a camminare distratto. Ed ecco una lezione istantanea. Mi sono fermato. Ho guardato il cielo, poi i miei piedi. E ho detto ad alta voce: "ok, ho capito. Lezione appresa". E ho ricominciato a camminare con presenza. Giù per una pietraia buia e bagnata, con in lontananza quelle che immaginavo fossero le leggendarie Pale di San Martino, anche se nascoste dalla notte e dalle nuvole. Ne intravedevo qualcosa dei contorni.


Gli ultimi km di TL me li sarei assaporati tutti, come si fa col proprio piatto preferito. Una voce mi diceva di correre. Ho imparato ad ascoltare quella voce e a fare esattamente il contrario. Parla quando devo uscire e mi voglio allacciare le scarpe di fretta. Parla e spinge quando voglio lavare i piatti il più velocemente possibile per poter fare altro, qualcosa di più interessante. La sento quando devo fare la fila in auto. Allora rilasso tutto, respiro e faccio quello che devo fare quasi al rallentatore, fino a quando quella voce, spazientita, mi lascia stare e mi permette di vivere la mia vita appieno. Scendevo piano di quota, la luce dell'aurora piano piano aumentava fino  a quando ho potuto camminare senza torcia frontale. Poi sono arrivati i laghetti di Colbricon, con la nebbia tiepida che scorreva sulla superficie. E poi, e poi...
La strada . Gli impianti risalita che ancora dormivano. I prati che in inverno diventano piste da sci ( lo diventano ancora, o la neve và sparata coi cannoni? 
 E poi il passo Rolle all'alba. Sullo sfondo, così belle e maestose da sembrane un cartonato, le pale di San Martino. Sono arrivato. 


Mancava più di un'ora al primo bus della giornata, e senza crederci assolutamente ho provato a tirare fuori il pollice in cerca di un passaggio. E incredibilmente la prima auto che è passata si è fermata a darmi un passaggio. Trail provides, davvero. Un passaggio veloce fino a Predazzo, da dove, dopo una colazione al bar, ho preso il bus diretto che mi ha riportato a Trento. Mentre scendevo dalla val di Fiemme guardavo alla mia sinistra, lontano, il Lagorai che avevo appena attraversato. Sembravano così alte e lontane! Sono arrivato a Trento dove i 28 gradi che c'erano mi sembrano almeno 38. La mia auto era ancora lì, intera. Tre ore dopo ero di nuovo a casa. 

Un esperienza dura, bella e ruvida. Come il porfido della catena del Lagorai. 



Ps: statistiche di questa Tranlagorai:

Zecche prese: 0

Storte prese: 0,5

km percorsi:83

Passi fatti: circa 120'000

Dislivello totale: 4900 positivo e 4700 negativo

Passi compiuti con presenza: almeno 3/4.

Litri d'acqua consumati: 16

Animali avvistati: una rana e una decina di marmotte.







sabato 7 giugno 2025

Appunti per un sistema di trasmissione del Parkour, parte 3/3

 "Pensare libero e tanto porta a numerosissime contraddizioni, ma ogni contraddizione risolta  è un'evoluzione del pensiero." 

Dal diario di viaggio in Asia di Federico, 2010


Nel maggio del 2016 Gato, aka Federico Mazzoleni, scriveva "appunti per un sistema di trasmissione del parkour parte 1 e poi 2/3. La terza parte non vide mai la luce. 

Gato è morto nel gennaio del 2019. Il suo corpo, almeno. In noi  ha lasciato un vuoto, ma in me ha lasciato soprattutto qualcos'altro.  Una chiamata.

La voglia di continuare a scavare il tunnel che a forza di mani aveva iniziato lui. Insomma, celebrare la sua vita continuando il lavoro, invece di celebrare solo la sua morte come i nipotini che vanno a visitare al cimitero la tomba della nonna morta una volta all'anno. 

 Quel vuoto lasciato dalla sua morte io non l'ho mai davvero sentito. Ma ho sentito e sento la sua "presenza"  nella mia mente in ogni dubbio che mi pongo quando devo rompere ( o aprire? Non riesco a decidermi quale parola descriva meglio il processo) un salto, quando decido cosa e come insegnare ad adulti e ragazzi, quando mi interrogo sul mio valore, quando pubblico un video del mio allenamento. 

Sono cresciuto anche grazie a lui. Se questo blog è nato nel 2009 è anche perchè leggevo il suo. L'ho divorato, mi sono lambiccato il cervello per anni, nel tentativo di capire qualcosa dei molti livelli dei suoi ragionamenti ed ero ammirato dalla profondità scientifica e dal rigore della sua ricerca. 

Ragionare sulle ragioni divine e sull' ingiustizia della sua morte ha poco senso, e per quanto lo conoscevo, credo che mi avrebbe riso in faccia della mia serietà nell'ammirarlo, così come avrebbe riso della soggezione che provo ora nel tentativo di portare avanti la sua ricerca come insegnante. Mi immagino quegli occhi  celesti furbetti dirmi, ghignando: " Tè Ghost, cosa aspetti?! "

 Ora sono quasi sette anni che è morto e pensandoci i sette anni da quando è scomparso sono quasi più lunghi degli anni in cui è stato pioniere in Italia. Oltre al ricordo della sua visione, che si è interrotta in un periodo difficile per il parkour/ADD in Italia, voglio portare avanti la ricerca con lo spirito di questo momento, con tutta la bellezza, la sporcizia e le contraddizioni che lo segnano. 

Allora scrivo, Gato. lascio i miei due cents su come insegnare il parkour/ADD , ora che ho più esperienza e ora che so prendermi meno sul serio. Ora che intravedo a tratti l'impermanenza di tutte le cose. Porto il mio, ma prendo anche da te, che eri così bravo a trarre parole e immagini dalla parte più difficile del parkour, la parte invisibile. Che poi è quella che fa tutto quello che lo rende arte (marziale) e non solo sport di prestazione. 

Ho deciso di scriverne perchè ho dovuto prima riconoscere quali sono le qualità che cerco di sviluppare in me, poi quelle per poter insegnare al massimo delle mie capacità e poi quelle che voglio tramandare insegnando. E ovviamente il cosa e il come.


Alla base di tutto ci sono alcuni assiomi irrinunciabili senza i quali il pk/ADD non sarebbe quello che è, ma solo un imbastardimento della ginnastica artistica.

Non competizione: il parkour offre qualcosa di diverso dai soliti sport, dove le regole sono sempre più precise in termini di comportamento, possibilità, limiti di partecipazione e standardizzazione per ottimizzare la performance. Nei primi decenni dalla nascita di discipline freestyle come l'arrampicata libera, la breakdance, lo skate e il surf c'era il forte desiderio di dissociarsi da una realtà sportiva ( ma forse proprio da una società) che imponeva di adeguarsi chiudendo la libertà di espressione in regole, punteggi e stili. Mentre la non competizione permette un confronto sano tra le persone riconoscendo la soggettività, i gusti personali, i diversi modi in cui può svilupparsi il problem solving personale.  Il parkour ADD è uno strumento politico proprio perchè scardina queste regole. Si può fare fuori praticamente gratis e ovunque. Ognuno può farlo secondo le proprie capacità e non deve rendere conto a nessuno se non a sè stesso/a dei propri risultati. E' una forma di dissenso e di presa di coscienza. 

Coerenza: Il parkour è solo un'attività. Di per sè nè nobile nè bastarda. E' uno specchio. Mostra quello che siamo senza poterci nascondere. E ci chiede di fare uno sforzo per produrre qualcosa di coerente con i valori di cui ci riempiamo la bocca (pratichi? Pratica quello che dici. Insegni? Formati, sii competente, non farlo a caso solo per due soldini). E non lo fa solo quando siamo di fronte ai nostri corsisti, con il mantello dell'eroe addosso. Ma quando ci alleniamo da soli, quando decidiamo se chiuderci in palestra perchè fuori piove (mentre cianciamo del valore dell'adattabilità) , quando editiamo un video dei nostri movimenti in un modo che tutti i salti sembrino più grossi e tagliando le parti imperfette o il processo.  E' la nostra coscienza. Ed è facile sottrarvisi per due like, un euro in più,  uno sbattimento in meno.

 Un piccolo appunto, entrando quasi nel mio ventesimo anno di pratica, ed è per me ancora un'espressione di coerenza. A chi mi chiede cos'e' il parkour non rispondo più con la solita risposta standard mettendomi in modalità replay e sciorinando la solita definizione, più o meno sempre quella e tra l'altro un pò ambigua. Quando mi chiedono :" Cos'e' il parkour"?  Io rispondo con tutta l'onestà di cui sono capace: "Io non lo so. So che è qualcosa a cui sono devoto.". " E come lo insegni?" " Il parkour si può imparare, ma non si può insegnare."




Le qualità che ricerco:

Forza

Averne abbastanza per pianificare un'invasione, costruire una casa, scavalcare un muro, sollevare una persona, traversare una parete di roccia, rimanere freddo quando tutti intorno perdono la testa, resistere alle tentazioni, mandare k.o. un nemico o riuscire a farlo ragionare con la forza della mia calma.

Comunità

Trovare nel tempo persone che, pur nella loro diversità stiano viaggiando nella mia stessa direzione. Formare una tribù. Spingere e farsi spingere per avvicinarsi ad esprimere il proprio potenziale, cosa difficile da fare da soli.

Espressione di sè.

In ultima analisi il parkour è per me una forma d'arte.  E tutte le forme di arte sono espressione di sè,  della propria visione interiore. Cercare di  vivere la mia pratica e la mia vita  come un' arte richiede grande onestà e umiltà, prerequisiti fondamentali per potersi esprimere sinceramente, lontani da mode, schemi e convenzioni sociali e culturali.

Ovviamente queste idee sono temporanee, cambiano. Sono Vive e Verdi! Alcune sono più importanti oggi di ieri, altre le lascio perdere per un pò e poi ci torno. Cercare di avere dei fondamenti non è soltanto avere dei pilastri solidi, come i tre pilastri della piramide del parkour. Ma ha significato per me costruirmi un timone e una vela per dare a questa barchetta sperduta nell'oceano una rotta. Che non so dove mi porterà, ma almeno posso esplorare avendo una direzione. 

Bodhidharma, da cuore a cuore


I princìpi del mio insegnare

Qui voglio condividere i fondamenti della pratica che voglio passare nel coaching e che dividerò principalmente in quattro grossi rami dell'albero:

Il far fare

 So dovessi riassumere al massimo cosa fa il coach di ADD/Parkour, direi che l'insegnante è colui che fa fare alle persone. Far fare non significa  certo imboccare i discenti con nozioni e tecniche, in maniera verticale e soprattutto facile.  Trovo molto rischioso insegnare delle tecniche così come noi insegnanti le sappiamo eseguire adesso, in modo più o meno perfetto. Io preferisco, dopo una fase iniziale di osservazione delle persone a cui insegno per esempio il monkey, capire quali sono i princìpi che ognuno deve capire per comprendere il movimento, e questo richiede alcuni fattori di cui tenere conto:

  • Personalizzazione: ogni persona è diversa. Per età, livello, forza fisica, intelligenza motoria. Ognuno ha timori diversi, più o meno fondati. Quindi ciascuno avrà bisogno di consigli diversi e non ha senso standardizzare per velocizzare il processo , magari col fastidio per chi rimane indietro. 
  • Il principio del labirinto: guidali, dà loro gli strumenti, ma poi lascia che trovino da soli l'uscita. Imparare dai  propri errori, dover combattere con le piccole frustrazioni date dal non capire un movimento e poi risolverlo da soli permette il vero apprendimento, quel cambiamento interno dato dal lavoro tecnico che và a braccetto con quello emotivo ( ed ecco perchè il talento è una trappola, per chi impara ma soprattutto per chi insegna). Queste persone impareranno più lentamente che se gli avessi detto tutto e subito? avrebbero imparato il monkey. Ma nient'altro. Invece in questo modo rimane nella memoria anche la gioia del successo guadagnato con la propria fatica. Si ricorderanno i dettagli necessari per eseguirlo nel migliore dei modi. Il coach è un facilitatore, non una nutrice. Ed ecco perchè il talento è pericoloso. Chi impara qualcosa molto facilmente e in poco tempo (perchè ha un talento)  non è dovuto passare attraverso decine se non centinaia di tentativi, che permettono di scoprire varianti, progressioni e regressioni preziosissime quando si insegna a persone molto diverse, ognuno con i propri bisogni. Ogni errore ripetuto è un vicolo cieco che lo studente deve trovarsi davanti per poter capire di dover provare un'altra strada. 

  • La sfida: un tema che negli anni si è ripresentato più volte, un tema che per molti insegnanti è critico e sempre aperto: quanto far rischiare ai propri allievi? E' necessario dare gli strumenti necessari a gestire la situazione pericolosa. Poi è importante comunicare con molta chiarezza quali sono i rischi di quella situazione. In seguito  io ritengo sia essenziale spiegare il valore che sta dietro l'affrontare un salto che potrebbe essere fatale ( spero che qui non sia necessario entrare nel merito). E infine bisogna avere fede. Fede significa fiducia che quella persona saprà gestire la situazione,  sia che lo faccia sia che rinunci. E accettare di buon grado le possibili conseguenze, che dovranno essere minime se abbiamo lavorato bene. Ma non dimentichiamo che il parkour/ADD è pericoloso. Non raccontiamoci bugie.

La trasmissione da cuore a cuore

"Da cuore a cuore" è un modo di dire del Buddhismo. Indica  una trasmissione empatica della disciplina, al di là del linguaggio e del formalismo. Ascolto, dialogo, aprirsi come essere umani e, anche siamo coach, parlare delle proprie paure e dubbi. L'ho sempre fatto. Non ho mai creduto a questa aura di divinità e perfezione che alcuni insegnanti hanno o si costruiscono. Da cuore a cuore significa, per chi l'ha fatta con me, guadagnarsi la settimana di ferro, con tutto quello che c'e' dentro, Significa coltivare coi propri corsisti ( o partecipanti a un workshop) una pratica che và ben oltre i salti. Può essere la tazza condivisa da cui beviamo la stessa acqua.

I princìpi invisibili oltre la tecnica

  • Esplorazione: provo a portare una visione della pratica in città esattamente come se fossimo un gruppo di Neanderthal in un ambiente sconosciuto. Una foresta. Allora non ci sono direzioni in in cui non si può andare, livelli che non possiamo esplorare alla ricerca di risorse, o per pura curiosità umana. In questo modo il parkour non si riduce al riempire uno spazio d'aria col proprio corpo, saltando da un punto ad un altro. La città  diventa foresta viva e piena di angoli e misteri da conoscere. I salti, le tecniche, sono solo i mezzi con cui conoscerla in ogni suo segreto. Niente che non potrebbe esserci anche senza un singolo salto.
  • Conoscenza di sè : i breaking jump sono mezzi per conoscere il sè di oggi e aprire la strada a quello che verrà domani. Il resistere alla fatica è un altro mezzo. Prendi misura della tua forza e scopri quanto sei vigliacco, debole, quanto sei disposto/a a barare per finire qualche secondo prima. E' questo il nostro lavoro. Spogliare le persone e noi stessi delle sovrastrutture e vedere la perla che si nasconde sotto. Chi partecipò alla sfida finale del workshop a Verona di un paio di anni fa si ricorderà la tensione, lo scontro di ossa e tendini nel rimanere in quelle posizioni per un tempo infinito. 

espressione di sè (della propria arte interiore)

Mi impegno attivamente perchè le persone che alleno non diventino miei cloni. Se non si sta attenti le persone iniziano a imitare naturalmente il modo di fare, di parlare, persino di gesticolare dell'insegnante se questo ha carisma ed esercita una qualche forma di soggezione. Ma soprattutto insisto sul far trovare a ognuno il proprio stile di movimento e di creazione di percorsi. Come diceva quello stronzo del mio mentore quando facevo il panettiere, che mi sgridava  perchè cercavo di rubargli il lavoro con gli occhi: fai come dico, non come faccio io. Meglio non correggere ogni errore che si vede, o qualche sbavatura nei movimenti. Che ognuno possa esprimersi, anche se per molto tempo non sapranno cosa significa esprimersi, cioè andare oltre le tecniche più fighe e i salti più grossi. Questo nell'insegnamento. E per me come praticante? Vale lo stesso. Valgono le parole di Bruce Lee qui.


Camminando speso in montagna mi è venuto un pensiero sull'insegnamento. Noi insegnanti, di qualsiasi livello, vogliamo portare i nostri discenti sulle cime delle montagne, che rappresentano il livello di competenze che vogliamo che queste persone raggiungano e che sarebbe anche il livello al quale ci troviamo noi ( perchè lo vogliamo, vero? Non vogliamo tenerceli come corsisti all'infinito, spillando i loro soldini per più tempo possibile centellinando le conoscenze, vero?!) . Bene. Ma l'errore che non dobbiamo fare è quello di aspettare queste persone in cima. Noi non dobbiamo essere in cima e chiamare i nostri studenti incitandoli dall'alto a camminare per raggiungerci. Non è così che si và in montagna e non è così che si dovrebbe insegnare, per me. Si dovrebbe partire tutti insieme dal basso, camminare insieme, magari indicando il sentiero migliore a un bivio o i punti critici da evitare- anche perchè in tutto questo processo le persone ci guardano e ci imitano (l'insegnamento è costante, anche quando non stiamo insegnando). Alla fine lo scopo dell'insegnamento non dovrebbe essere quello di portare le persone sulla nostra cima, ma dovrebbe essere insegnare loro a camminare sui sentieri. Poichè solo così le persone saranno in grado, in futuro, di salire sulle LORO cime. 


Infine: Questo non è che un tentativo di tradurre le vaghe sensazioni e le poche certezze accumulate in questi anni di pratica e insegnamento per scritto. E' pur sempre un diario. Non è la verità, neppure per me. E' il desiderio di saldare il debito che sento col parkour, che tanto mi ha chiesto e che tantissimo mi ha dato. E' un amante al quale sono devoto. Ed è anche per questo che insegno. Per restituire qualcosa di quanto ho ricevuto.  Non ho l'ardire di portare avanti la ricerca di Gato,  ma è anche grazie a lui se sono quello che sono. Glielo dovevo. 







 


sabato 31 maggio 2025

Mi sentivo nudo, sulla via ferrata.

 Da pochi mesi è stata creata la prima ferrata della provincia di Varese. Appena ne ho letto mi è tornata immediatamente alla mente quella fatta con Perez. La mia prima ferrata. Un incubo. E credo di non averne mai scritto in realtà. Chissà perchè. Comunque fu una delle esperienze più estreme della mia vita. 

In ogni caso dopo quella ne ho fatta solo un'altra. Quindi ho pochissima esperienza, anche se mi affascinano. Così oggi l'ho cercata. Nella mia immaginazione l'idea era quella di  fare solo una breve esplorazione, fare qualche prova ben ancorato e poi magari un giorno tornare e farla con più confidenza.  Ho imparato a diffidare delle guide che le descrivono ( sia sotto che sopravvalutando le difficoltà e la lunghezza) e volevo vederla coi miei occhi per saggiarla. Bene. La microavventura prevedeva alcuno obbiettivi da raggiungere in ordine:

  1. Trovare la ferrata;
  2. Approcciarla con estrema cautela essendo da solo e avendo molta paura sia di arrampicare sia delle altezze;
  3. Tornare a casa vivo.
Dopo un'ora e mezza di cammino l'ho trovata. obbiettivo numero 1 raggiunto. Tiro fuori dallo zaino il kit ferrata, il casco... e li indosso. E poi realizzo che il kit ferrata non è un imbrago, è un kit da ferrata DA LEGARE all'imbrago, che ho lasciato a casa. Cosa faccio, torno a casa? eh no. Il karma aka la mia demenza senile mi ha condotto evidentemente a questo punto.  Così ho alzato lo sguardo e ho immaginato come procedere, il vecchio mental game del Danilo semi trasparente che esegue tutti i movimenti necessari, mette i piedi dove vanno messi, le mani che prendono gli appigli con la forza necessaria ma non eccessiva, per non  ghisarmi gli avambracci a metà e rischiare di cadere vittima del panico. 








La tocco, inizio a provare un pezzetto. La partenza è il pezzo peggiore. Strapiombante e verticale, per poi virare a creare un lungo arco di traverso, scendere in una sorta di camino per poi risalire e finire il lungo arco. Troppo difficile. Sono sceso con le mani sudatissime e già un pò doloranti per aver stretto così forte il cavo e le staffe. Vado a vedere come finisce, dalla parte opposta. 
Molto meglio questo lato, che inizia dolcemente e con diversi appoggi. Così ho provato a salire una decina di metri da questa parte: i battiti cardiaci sono saliti in fretta, ma imponendomi di fare tutto con calma e di tenermi appena al cavo come fossi un ragnetto il cedimento muscolare non è quasi arrivato. Ho fatto una pausa agganciando entrambe le braccia al cavo: questo mi ha fatto si riposare, a comprimendo i gomiti tutto il sangue che gonfiava gli avambracci è rimasto lì facendomi sentire affaticato. Ora di scendere! Camminando avanti e indietro ho fatto per studiarla, ma in realtà nella mia testa stavo solo decidendo: quello che avrebbe dovuto essere un percorso di avvicinamento graduale nell'arco di parecchie uscite, si fa oggi.

Immaginavo che oggi l'avrei fatta con il kit e l'imbrago, e già sarei stato contento di farla in solitudine, per poi fra un pò di tempo tornare lì molte volte e farla con sembra maggiore confidenza fino a farla un giorno, chissà, usando meno volte i moschettoni del kit, e poi forse in futuro, farla libera. Ma ero già lì. Cosi mi sono deciso: Sono da solo, se mi succede qualcosa sono guai. Proverò andando con grande prudenza e potendo tornare in ogni momento indietro. Reversibilità, come mi ha insegnato il buon Lorenzo riferendosi al metodo Feldenkrais. Niente panico. Si respira, si và. In ogni momento non sarò mai solo appeso sulle braccia, per non ghisarmi  ma anche per non scivolare con le mani sudate, dato che non ho i guanti da ferrata. 

Ovviamente ho deciso di partire dalla partenza ufficiale per liberarmi da fresco del punto peggiore, lo strapiombo verticale. Piano, un passo per volta .

Ho scelto di farla, nonostante avessi dimenticato a casa l'imbrago perchè mi è sembrato un esempio perfetto di cosa significhi essere un praticante: Avere abbastanza forza fisica da poter gestire quel tipo di sforzo e abbastanza forza mentale da rimanere freddo e lucido. Un corpo in forma, autocontrollo, e non essere schiavo dell'essere over protetto, come il mondo desidera per noi.  Proprio le sfide che il parkour ci lancia. 


Avevo bisogno di sentirmi esposto, vulnerabile, per poter esercitare quel controllo dato dalla pratica meditativa. Seduto su un cuscino in casa non è una vera prova. 

Vogliamo essere giardinieri in guerra o guerrieri in un giardino? (Grazie per questa frase illuminante, Vecchio Taoista). 
 In un certo senso è stato anche divertente.

Lentamente e prendendomi tutte le pause che servivano nei punti più sicuri, ce l'ho fatta.  Ho fatto una ferrata da solo e slegato. Un bel breaking jump. Per fortuna non c'era nessuno a cui dover dare spiegazione o che stesse a guardare. Grande soddisfazione per un'altra paura sconfitta.













domenica 30 marzo 2025

Stealth parte due: Foresta

 





Sono passati 5 anni dal primo post sullo stealth e dal video (che potete trovare qui ) che girai per provare a condividere i primi mesi di ricerca in quell'ambito. La ricerca è andata avanti e così il mio allenamento. Tanto da aver tenuto quest'anno un workshop su stealth e Buddhismo Zen nella stessa giornata.  E' stata la prima volta che in cui ho condiviso con l'insegnamento i frutti di questa pratica e degli anni di ricerca. Qualcosa che spero di ripetere. 

Per tornare alle pratiche di furtività il video appena uscito  (questo, assurdo incredibile, andate a vederlo ) è dedicato esclusivamente alla pratica in ambiente naturale. Le linee guida generali sono le stesse del post scritto nel 2020.  Ma ho dedicato parte dell' allenamento ad alcuni aspetti che volevo migliorare e approfondire. Ci sono alcuni aspetti della pratica di cui non è ancora il momento ( forse non lo sarà mai) di parlare, qui. Ma per iniziare da quelli più pratici:


-Corsa. L'esercizio per eccellenza. La semplice capacità di coprire delle distanze sul terreno coi propri piedi era vitale all'epoca del Giappone feudale così come lo è per le forze d'elite degli eserciti di tutto il mondo.  Non a caso ogni esame fisico per entrare a far parte di forze speciali include una parte di corsa su lunghe distanze.  A corpo libero o equipaggiati con zaino, armi e scarponi. 

Correre per brevi distanze ad alta velocità. Un umano deve essere in grado di fare uno scatto di 50, 100, 400 metri. Per entrare rapidamente in un territorio o per fuggire da esso.

Correre per lunghe distanze con e senza sovraccarico. La corsa è ad oggi uno dei metodi più efficaci per costruire forza e resistenza in termini di resistenza fisica e psicologica.

Aumenta la resistenza al dolore, alla fatica, alla stanchezza. Migliora la densità ossea. Abbassa la frequenza a riposo del battito cardiaco. Migliora il metabolismo. Migliora la circolazione periferica e polmonare. Negli ultimi tempi quando corro nella foresta lo faccio con scarpe minimali per ridurre il rumore provocato dai passi. A volte faccio uno o due km con una piccola zavorra nello zaino cercando di farlo su terreni irregolari per rimanere lucido nello scavalcare ostacoli e per variare il ritmo.


-Mimetismo con materiale naturale. Facile portandosi tutto da casa. Bisogna sapersi adattare e imparare  a raccogliere il materiale necessario sul posto. 

-Controllo del respiro  e del battito cardiaco subito dopo una corsa e nelle posizioni statiche di attesa, come la posizione prona e rannicchiata. 

-Pratica con le armi tradizionali. Anche se non in maniera consistente ho comunque dedicato del tempo per migliorare la mia mira con il fukiya (la cerbottana) e con la fionda, aumentando mira e distanza di tiro.

-Arrampicata e movimenti sugli alberi (sia orizzontali sia verticali). Sta migliorando la forza di presa, la resistenza alla fatica muscolare, la mobilità delle spalle e la capacità di gestione delle altezze.

-Capacità di stare immobile. Sento che lavorarci sta migliorando la resistenza psicologia al disagio di posizioni scomode, la freddo, all'umidità del terreno e permette agli animali di non  percepirmi più come una minaccia e così facendo si è più fusi e mescolati all'ambiente.




 "L'adattabilità è la chiave che apre le porte di tutte le sfide."- Fujibayashi Nagato




martedì 7 gennaio 2025

Sangha

 







Il Sangha è, nel gergo Buddhista, la comunità di monaci, monache, laici e laiche che praticano il buddhismo. Per me nel tempo ha iniziato a significare qualcosa di più della sola massa di persone che praticano l'ADD/parkour.  Quella è "la comunità". Persone che praticano la stessa attività. Qualcosa di cui non mai riuscito a sentirmi davvero parte. Mi sono sempre sentito un pò al di fuori. Un emarginato, per quanto auto escluso. Ma negli ultimi tempi quello di sangha è un concetto che continua a girarmi dentro. 

Ci sono persone che si allenano meglio da sole. E va benissimo così

In me invece c'e' sempre stato un conflitto ( uno dei molti): da una parte sentivo disperato il bisogno di sentirmi parte di una famiglia, di un gruppo di persone accomunate dalla stessa passione e dagli stessi valori, e puntualmente ai raduni mi sentivo invece a disagio, lontano dagli altri. Dall'altra sono sempre stato combattuto nel cercare di capire se fosse giusto allenarmi da solo o con gli altri. Credevo che per essere forte dovessi progredire in solitudine, senza bisogno di nessuno. Molti problemi interiori irrisolti insomma, niente di nuovo. 

Ora ho fatto la pace con questa confusione. Ho capito che per stare bene devo alternare momenti di solitudine ad altri di compagnia. Compagnia di persone random e di persone significative. E quest'ultima modalità è quella che io chiamo il Sangha.

Dentro di me c'e' un desiderio di condividere il processo dei salti, dello sbloccarli, del tenere unito, delle gioie del successo e della frustrazione dei tentativi con persone significative. Di qualcuno che abbia la sensibilità di capire le mie difficoltà senza banalizzare paura e disagio. Di empatia.  Di tenerezza. Non con persone casuali. Praticare con persone significative significa, è vero, che saranno sempre pochissime e in poche occasioni, perchè siamo tutti adulti e ognuno ha i propri impegni e le difficoltà che sappiamo. Ma quando ci si trova si crea un'alchimia che genera e accresce i legami, è telepatia tra persone molto diverse. E' un boost istantaneo del proprio allenamento.



 Ed è qualcosa che nel mio caso sblocca un potenziale di capacità molto grande, rispetto a quello che riesco a fare da solo, a meno di enormi sforzi. Anche questo è un punto importante. Per molto tempo non capivo il motivo di questa differenza. In fondo sono sempre io che faccio quel salto, non gli altri. Eppure per qualche  motivo biologico o psicologico in compagnia di alcune persone sento di essere molto più forte, più confidente, ma soprattutto IN PACE. Ho rotto dei salti mai fatti con incredibile leggerezza d'animo rispetto a quando li ho allenati da solo. Non ho trovato ancora una risposta certa a questo meccanismo interiore, a questa porta del chakra che si apra permettendomi di esprimere le mie vere capacità. Ma sento che è giusto, e tanto basta. Non mi sembra più una sorta di barare con la pratica. Credo però che tutto questo non provenga solo dal trovare le persone giuste, ma dal diventare noi stessi le persone giuste. Io negli anni ho lavorato tanto per iniziare ad avere un rapporto migliore con la mia paura e con la mia pratica. Quindi a lamentarmi meno. Quindi a diffondere un'energia diversa intorno a me. Cosa a cui non pensavo e che ora ritengo importantissima. Sappiamo tutti bene che con certi praticanti ci riesca naturale allenarci e che con altri ci troviamo a disagio. Così, a pelle. Non lo capiamo bene ma è una sensazione forte e  che non possiamo ignorare. Sono sempre più convinto che sia dovuta all'energia che ci trasmette qualcuno, qualunque cosa questo significhi. Ora so che per tanto tempo sono stato un peso, più che un compagno di allenamento. Esprimendo sempre e subito le mie paure, lamentandomi. Ora è cambiato.  Non identifico più il mio valore nei salti che faccio. Non mi importa di fare tutto subito e perfetto. Ora apprezzo la pienezza della paura, il suo sapore. Ho imparato a viverlo come parte della pratica.   Questo ha secondo me fatto cambiare anche la percezione che gli altri hanno di me. 


La cosa più interessante è che questo rapporto sembra essere reciproco. Pare che in qualche misura io faccia lo stesso effetto a loro, permettendo a questi umani di rimuovere una sorta di blocco e di esprimere non solo più tecnica e più potenza, ma anche più gioia nel processo stesso del rompere un salto difficile, rispetto alla frustrazione e ai lunghi tentativi di un tempo. Questa sorta di scambio equivalente, di alimentare a vicenda il fuoco interiore credo sia quello che ha fatto dei primi praticanti, i fondatori. Persone che hanno trovato nei loro compagni e compagne di allenamento più di una famiglia. Ma una vera e propria tribù. Un legame che forse, a causa della fiducia necessaria nello spottarsi e della consapevolezza di rischiare la vita insieme, forse è un legame più forte di quelli di sangue. Se troveremo le persone giuste possiamo essere non soltanto praticanti che si allenano, saltano sulle cose. Ma FORZE TRAINANTI per gli altri, motori in grado di progredire e far progredire, come degli enzimi che scatenano reazioni a catena esplosive.

Ora non posso che provare gratitudine per queste persone. 

Chi legge saprà a chi mi rivolgo. 




 


forza trainante

domenica 3 novembre 2024

Traversata della Val Grande: due giorni perfetti

 Come sempre quando parlo di trekking non descriverò nel dettaglio il percorso fatto, le difficoltà e punti salienti, ma le mie emozioni a riguardo e quello che mi ha colpito e fatto riflettere. Per le guide internet è già pieno di ogni dettaglio. 

Cercavo la bellezza e la contemplazione dello spirito autunnale. Dopo il thrualps di questa estate dove non ho potuto decidere il ritmo da seguire avevo voglia di fermarmi ad ascoltare ogni cascata, ogni   sfumature di colore delle foglie e persino le venature dei massi che  avrei incontrato. 

E così ho fatto.

 La Val Grande è l'area wilderness più estesa d'Italia, oltre a essere parco nazionale dal 1992. Per poi essere stato ampliato nel 98. Comprende una serie di ambiente a protezione graduale. In alcuni si possono fare alcune attività, altri sono solo attraversabili, e in alcune aree è vietato l'accesso, per preservare completamente la flora e la fauna dall'influenza dell'uomo. 

Da tempo pensavo di fare questo breve trekking, ma la fama di area selvatica e pericolosa mi intimoriva. Nel frattempo mi sono fatto un pò di esperienza qua e là fino a sentirmi pronto. Alla fine ho scelto di fare la traversata più classica e ben segnalata, da sud-ovest a nord da Premosello a Malesco. Ho scelto di farla in direzione contraria a a quella che tutti di solito fanno sia per evitare di incontrare troppe persone, sia per fare in salita la mattina del primo giorno quella che altrimenti sarebbe stata una discesa spacca ginocchia il pomeriggio del secondo. Ed è stata un'ottima scelta. 

Anzi oso dire che per quanto breve ( 31 km che volendo si potrebbero completare in giornata) questo sia stato forse il trekking perfetto: dopo settimane di pioggia si era aperta una finestra di bel tempo con cielo perfettamente limpido, temperature medie perfette, il parco in pieno foliage di faggi, betulle e larici a quote più alte, pochissime persone incontrate e la possibilità di sfruttare il ponte del primo novembre per fare questa traversata venerdì e sabato, invece di sabato e domenica, incontrando ancora meno gente. 

La Val Grande non è un parco addomesticato, per quanto non sia impossibile attraversarlo e viverlo. Però può rappresentare una sfida. Non tanto per la possibilità di perdersi fisicamente, che comunque è presente, ma per quella di perdersi a livello emotivo, spirituale. Ci sono boschi isolati, antichi, dove il silenzio è quasi inquietante. Dove per qualche motivo gli uccellini non cinguettano e le foglie che cadono non fanno rumore. E' quello che io andavo cercando. Volevo entrare in contatto con questi boschi e queste cime silenziose. Camminando, sedendomi, fermandomi ad ascoltare.  Ora un piccolo riassunto del giro fatto: 

Su consiglio del buon Francesco ho fatto la traversata da sud e seguendo la sua traccia. Grazie Fra.

L'unico piccola preoccupazione è stata arrivare in tempo a Malesco per prendere il treno che ho dovuto prenotare in anticipo (a causa della grande affluenza, è famoso perché permette di ammirare il foliage della valle a bordo di un trenino su rotaia a scartamento ridotto che costeggia le montagne immerso nel bosco), ma non si è rivelato un vero problema. 

Sono partito alle 6 e mezza di mattina lasciando l'auto alle 7 e mezza a Premosello, da dove il grande muro di montagne che forma la porta occidentale della Val Grande fa paura. Sembrano insuperabili. E in effetti per poter accedere alla porta occidentale bisogna superare in una botta i 1500 metri di dislivello dal paese di Premosello all'alpe La Colma in 8 km.  Sono salito immerso in faggi dai mille colori. Ho fatto molte pause per ammirare tutto quello che avevo intorno e per il  molto caldo, esposto a sud.  Si sale ancora su una gippabile, poi immerso nel bosco scivoloso di foglie bagnate all'ombra o croccanti al sole. Verso le 3 di pomeriggio sono arrivato ai bivacchi di In La Piana, dove alle 6 era già buio e ho ammirato a lungo le stelle. Ho passato una notte agitata da strani sogni di caldo e di spavento. Alle 5 ero in piedi e alle 6 sono partito, col bosco che era un'unica pozza di inchiostro nero. Sono partito presto sia per arrivare in tempo a Malesco senza correre sia per non avere gente intorno. Mano a mano che la foresta si svegliava ho iniziato a vedere di nuovo i colori, sono ripassato davanti alla cascata sotto alla quale il giorno prima ho fatto un bagno purificante, poi ho attraversato il ponte tibetano completamente bagnato di rugiada e scivolosissimo. Qualche ora dopo ero al punto più alto della traversata, Alpe Scaredi 1850, da dove di fronte si vedevano le montagne delle alpi lepontine e centrali, e dietro la splendida catena del Monte Rosa, del Dom, del Cervino. Da li inizia la lunga discesa verso Malesco. Mi sono ingegnato a fare un caffè usando il fornello ad alcool e dei sassi e ho iniziato scendere. Dentro di me cercavo di comporre, come Basho, qualche verso, ispirato dalla bellezza delle cime lontane o dei colori dei faggi davanti a me, ma nulla è emerso. 

Così mi sono limitato a sedermi in meditazione in un angolo al sole poco sotto la cima lavorando solo sul vivere quel momento senza malinconia. Sono stati due giorni troppo belli per intristirmi riflettendo sulla solitudine che vivo o sulle altre cose che gettano ombre. Il lavoro principale è l'accettazione senza attaccamento ai desideri. Che non significa accettare tutto passivamente o non avere desideri. Significa non esserne schiavi. Non attaccarsi alle cose che temiamo di perdere o che vorremmo avere.Il desiderio di avere una compagna, qualche soldo in più per non dover decidere se a fine mese poter fare la spesa o pagare quella bolletta, l'invecchiamento, la morte stessa. Temi da affrontare serenamente senza stupidi tabù e senza superstizione. 

Così riflettevo, una volta rimessomi a camminare, fino a quando distrattamente sono stato tradito dalle mie scarpe completamente consumate che non offrono più alcun grip sulla roccia bagnata, dopo due giorni in cui ero riuscito a guadare 50 torrendi senza mai bagnarmi, ho infilato un piede in una pozza profonda fino al ginocchio! Dopo un attimo di incredulità sono scoppiato a ridere e mi sono accorto che camminavo immerso in quelle meditazioni buddhiste invece di essere presente! Il resto della discesa l'ho fatta stanco ma sereno, di nuovo sveglio alla realtà. Quanta bellezza ho attraversato in un giorno e mezzo. Infine sono arrivato a Malesco, e dopo 4 cambi di treno per problemi vari sono tornato a casa a coccolare Subhuti, che avendo subito anche lui la sua dose di solitudine si è guadagnato una scatoletta intera di cibo premium.




















 

"Sera d'autunno-

da solo faccio visita 

a un'altra solitudine."- Yosa Buson