sabato 7 giugno 2025

Appunti per un sistema di trasmissione del Parkour, parte 3/3

 "Pensare libero e tanto porta a numerosissime contraddizioni, ma ogni contraddizione risolta  è un'evoluzione del pensiero." 

Dal diario di viaggio in Asia di Federico, 2010


Nel maggio del 2016 Gato, aka Federico Mazzoleni, scriveva "appunti per un sistema di trasmissione del parkour parte 1 e poi 2/3. La terza parte non vide mai la luce. 

Gato è morto nel gennaio del 2019. Il suo corpo, almeno. In noi  ha lasciato un vuoto, ma in me ha lasciato soprattutto qualcos'altro.  Una chiamata.

La voglia di continuare a scavare il tunnel che a forza di mani aveva iniziato lui. Insomma, celebrare la sua vita continuando il lavoro, invece di celebrare solo la sua morte come i nipotini che vanno a visitare al cimitero la tomba della nonna morta una volta all'anno. 

 Quel vuoto lasciato dalla sua morte io non l'ho mai davvero sentito. Ma ho sentito e sento la sua "presenza"  nella mia mente in ogni dubbio che mi pongo quando devo rompere ( o aprire? Non riesco a decidermi quale parola descriva meglio il processo) un salto, quando decido cosa e come insegnare ad adulti e ragazzi, quando mi interrogo sul mio valore, quando pubblico un video del mio allenamento. 

Sono cresciuto anche grazie a lui. Se questo blog è nato nel 2009 è anche perchè leggevo il suo. L'ho divorato, mi sono lambiccato il cervello per anni, nel tentativo di capire qualcosa dei molti livelli dei suoi ragionamenti ed ero ammirato dalla profondità scientifica e dal rigore della sua ricerca. 

Ragionare sulle ragioni divine e sull' ingiustizia della sua morte ha poco senso, e per quanto lo conoscevo, credo che mi avrebbe riso in faccia della mia serietà nell'ammirarlo, così come avrebbe riso della soggezione che provo ora nel tentativo di portare avanti la sua ricerca come insegnante. Mi immagino quegli occhi  celesti furbetti dirmi, ghignando: " Tè Ghost, cosa aspetti?! "

 Ora sono quasi sette anni che è morto e pensandoci i sette anni da quando è scomparso sono quasi più lunghi degli anni in cui è stato pioniere in Italia. Oltre al ricordo della sua visione, che si è interrotta in un periodo difficile per il parkour/ADD in Italia, voglio portare avanti la ricerca con lo spirito di questo momento, con tutta la bellezza, la sporcizia e le contraddizioni che lo segnano. 

Allora scrivo, Gato. lascio i miei due cents su come insegnare il parkour/ADD , ora che ho più esperienza e ora che so prendermi meno sul serio. Ora che intravedo a tratti l'impermanenza di tutte le cose. Porto il mio, ma prendo anche da te, che eri così bravo a trarre parole e immagini dalla parte più difficile del parkour, la parte invisibile. Che poi è quella che fa tutto quello che lo rende arte (marziale) e non solo sport di prestazione. 

Ho deciso di scriverne perchè ho dovuto prima riconoscere quali sono le qualità che cerco di sviluppare in me, poi quelle per poter insegnare al massimo delle mie capacità e poi quelle che voglio tramandare insegnando. E ovviamente il cosa e il come.


Alla base di tutto ci sono alcuni assiomi irrinunciabili senza i quali il pk/ADD non sarebbe quello che è, ma solo un imbastardimento della ginnastica artistica.

Non competizione: il parkour offre qualcosa di diverso dai soliti sport, dove le regole sono sempre più precise in termini di comportamento, possibilità, limiti di partecipazione e standardizzazione per ottimizzare la performance. Nei primi decenni dalla nascita di discipline freestyle come l'arrampicata libera, la breakdance, lo skate e il surf c'era il forte desiderio di dissociarsi da una realtà sportiva ( ma forse proprio da una società) che imponeva di adeguarsi chiudendo la libertà di espressione in regole, punteggi e stili. Mentre la non competizione permette un confronto sano tra le persone riconoscendo la soggettività, i gusti personali, i diversi modi in cui può svilupparsi il problem solving personale.  Il parkour ADD è uno strumento politico proprio perchè scardina queste regole. Si può fare fuori praticamente gratis e ovunque. Ognuno può farlo secondo le proprie capacità e non deve rendere conto a nessuno se non a sè stesso/a dei propri risultati. E' una forma di dissenso e di presa di coscienza. 

Coerenza: Il parkour è solo un'attività. Di per sè nè nobile nè bastarda. E' uno specchio. Mostra quello che siamo senza poterci nascondere. E ci chiede di fare uno sforzo per produrre qualcosa di coerente con i valori di cui ci riempiamo la bocca (pratichi? Pratica quello che dici. Insegni? Formati, sii competente, non farlo a caso solo per due soldini). E non lo fa solo quando siamo di fronte ai nostri corsisti, con il mantello dell'eroe addosso. Ma quando ci alleniamo da soli, quando decidiamo se chiuderci in palestra perchè fuori piove (mentre cianciamo del valore dell'adattabilità) , quando editiamo un video dei nostri movimenti in un modo che tutti i salti sembrino più grossi e tagliando le parti imperfette o il processo.  E' la nostra coscienza. Ed è facile sottrarvisi per due like, un euro in più,  uno sbattimento in meno.

 Un piccolo appunto, entrando quasi nel mio ventesimo anno di pratica, ed è per me ancora un'espressione di coerenza. A chi mi chiede cos'e' il parkour non rispondo più con la solita risposta standard mettendomi in modalità replay e sciorinando la solita definizione, più o meno sempre quella e tra l'altro un pò ambigua. Quando mi chiedono :" Cos'e' il parkour"?  Io rispondo con tutta l'onestà di cui sono capace: "Io non lo so. So che è qualcosa a cui sono devoto.". " E come lo insegni?" " Il parkour si può imparare, ma non si può insegnare."




Le qualità che ricerco:

Forza

Averne abbastanza per pianificare un'invasione, costruire una casa, scavalcare un muro, sollevare una persona, traversare una parete di roccia, rimanere freddo quando tutti intorno perdono la testa, resistere alle tentazioni, mandare k.o. un nemico o riuscire a farlo ragionare con la forza della mia calma.

Comunità

Trovare nel tempo persone che, pur nella loro diversità stiano viaggiando nella mia stessa direzione. Formare una tribù. Spingere e farsi spingere per avvicinarsi ad esprimere il proprio potenziale, cosa difficile da fare da soli.

Espressione di sè.

In ultima analisi il parkour è per me una forma d'arte.  E tutte le forme di arte sono espressione di sè,  della propria visione interiore. Cercare di  vivere la mia pratica e la mia vita  come un' arte richiede grande onestà e umiltà, prerequisiti fondamentali per potersi esprimere sinceramente, lontani da mode, schemi e convenzioni sociali e culturali.

Ovviamente queste idee sono temporanee, cambiano. Sono Vive e Verdi! Alcune sono più importanti oggi di ieri, altre le lascio perdere per un pò e poi ci torno. Cercare di avere dei fondamenti non è soltanto avere dei pilastri solidi, come i tre pilastri della piramide del parkour. Ma ha significato per me costruirmi un timone e una vela per dare a questa barchetta sperduta nell'oceano una rotta. Che non so dove mi porterà, ma almeno posso esplorare avendo una direzione. 

Bodhidharma, da cuore a cuore


I princìpi del mio insegnare

Qui voglio condividere i fondamenti della pratica che voglio passare nel coaching e che dividerò principalmente in quattro grossi rami dell'albero:

Il far fare

 So dovessi riassumere al massimo cosa fa il coach di ADD/Parkour, direi che l'insegnante è colui che fa fare alle persone. Far fare non significa  certo imboccare i discenti con nozioni e tecniche, in maniera verticale e soprattutto facile.  Trovo molto rischioso insegnare delle tecniche così come noi insegnanti le sappiamo eseguire adesso, in modo più o meno perfetto. Io preferisco, dopo una fase iniziale di osservazione delle persone a cui insegno per esempio il monkey, capire quali sono i princìpi che ognuno deve capire per comprendere il movimento, e questo richiede alcuni fattori di cui tenere conto:

  • Personalizzazione: ogni persona è diversa. Per età, livello, forza fisica, intelligenza motoria. Ognuno ha timori diversi, più o meno fondati. Quindi ciascuno avrà bisogno di consigli diversi e non ha senso standardizzare per velocizzare il processo , magari col fastidio per chi rimane indietro. 
  • Il principio del labirinto: guidali, dà loro gli strumenti, ma poi lascia che trovino da soli l'uscita. Imparare dai  propri errori, dover combattere con le piccole frustrazioni date dal non capire un movimento e poi risolverlo da soli permette il vero apprendimento, quel cambiamento interno dato dal lavoro tecnico che và a braccetto con quello emotivo ( ed ecco perchè il talento è una trappola, per chi impara ma soprattutto per chi insegna). Queste persone impareranno più lentamente che se gli avessi detto tutto e subito? avrebbero imparato il monkey. Ma nient'altro. Invece in questo modo rimane nella memoria anche la gioia del successo guadagnato con la propria fatica. Si ricorderanno i dettagli necessari per eseguirlo nel migliore dei modi. Il coach è un facilitatore, non una nutrice. Ed ecco perchè il talento è pericoloso. Chi impara qualcosa molto facilmente e in poco tempo (perchè ha un talento)  non è dovuto passare attraverso decine se non centinaia di tentativi, che permettono di scoprire varianti, progressioni e regressioni preziosissime quando si insegna a persone molto diverse, ognuno con i propri bisogni. Ogni errore ripetuto è un vicolo cieco che lo studente deve trovarsi davanti per poter capire di dover provare un'altra strada. 

  • La sfida: un tema che negli anni si è ripresentato più volte, un tema che per molti insegnanti è critico e sempre aperto: quanto far rischiare ai propri allievi? E' necessario dare gli strumenti necessari a gestire la situazione pericolosa. Poi è importante comunicare con molta chiarezza quali sono i rischi di quella situazione. In seguito  io ritengo sia essenziale spiegare il valore che sta dietro l'affrontare un salto che potrebbe essere fatale ( spero che qui non sia necessario entrare nel merito). E infine bisogna avere fede. Fede significa fiducia che quella persona saprà gestire la situazione,  sia che lo faccia sia che rinunci. E accettare di buon grado le possibili conseguenze, che dovranno essere minime se abbiamo lavorato bene. Ma non dimentichiamo che il parkour/ADD è pericoloso. Non raccontiamoci bugie.

La trasmissione da cuore a cuore

"Da cuore a cuore" è un modo di dire del Buddhismo. Indica  una trasmissione empatica della disciplina, al di là del linguaggio e del formalismo. Ascolto, dialogo, aprirsi come essere umani e, anche siamo coach, parlare delle proprie paure e dubbi. L'ho sempre fatto. Non ho mai creduto a questa aura di divinità e perfezione che alcuni insegnanti hanno o si costruiscono. Da cuore a cuore significa, per chi l'ha fatta con me, guadagnarsi la settimana di ferro, con tutto quello che c'e' dentro, Significa coltivare coi propri corsisti ( o partecipanti a un workshop) una pratica che và ben oltre i salti. Può essere la tazza condivisa da cui beviamo la stessa acqua.

I princìpi invisibili oltre la tecnica

  • Esplorazione: provo a portare una visione della pratica in città esattamente come se fossimo un gruppo di Neanderthal in un ambiente sconosciuto. Una foresta. Allora non ci sono direzioni in in cui non si può andare, livelli che non possiamo esplorare alla ricerca di risorse, o per pura curiosità umana. In questo modo il parkour non si riduce al riempire uno spazio d'aria col proprio corpo, saltando da un punto ad un altro. La città  diventa foresta viva e piena di angoli e misteri da conoscere. I salti, le tecniche, sono solo i mezzi con cui conoscerla in ogni suo segreto. Niente che non potrebbe esserci anche senza un singolo salto.
  • Conoscenza di sè : i breaking jump sono mezzi per conoscere il sè di oggi e aprire la strada a quello che verrà domani. Il resistere alla fatica è un altro mezzo. Prendi misura della tua forza e scopri quanto sei vigliacco, debole, quanto sei disposto/a a barare per finire qualche secondo prima. E' questo il nostro lavoro. Spogliare le persone e noi stessi delle sovrastrutture e vedere la perla che si nasconde sotto. Chi partecipò alla sfida finale del workshop a Verona di un paio di anni fa si ricorderà la tensione, lo scontro di ossa e tendini nel rimanere in quelle posizioni per un tempo infinito. 

espressione di sè (della propria arte interiore)

Mi impegno attivamente perchè le persone che alleno non diventino miei cloni. Se non si sta attenti le persone iniziano a imitare naturalmente il modo di fare, di parlare, persino di gesticolare dell'insegnante se questo ha carisma ed esercita una qualche forma di soggezione. Ma soprattutto insisto sul far trovare a ognuno il proprio stile di movimento e di creazione di percorsi. Come diceva quello stronzo del mio mentore quando facevo il panettiere, che mi sgridava  perchè cercavo di rubargli il lavoro con gli occhi: fai come dico, non come faccio io. Meglio non correggere ogni errore che si vede, o qualche sbavatura nei movimenti. Che ognuno possa esprimersi, anche se per molto tempo non sapranno cosa significa esprimersi, cioè andare oltre le tecniche più fighe e i salti più grossi. Questo nell'insegnamento. E per me come praticante? Vale lo stesso. Valgono le parole di Bruce Lee qui.


Camminando speso in montagna mi è venuto un pensiero sull'insegnamento. Noi insegnanti, di qualsiasi livello, vogliamo portare i nostri discenti sulle cime delle montagne, che rappresentano il livello di competenze che vogliamo che queste persone raggiungano e che sarebbe anche il livello al quale ci troviamo noi ( perchè lo vogliamo, vero? Non vogliamo tenerceli come corsisti all'infinito, spillando i loro soldini per più tempo possibile centellinando le conoscenze, vero?!) . Bene. Ma l'errore che non dobbiamo fare è quello di aspettare queste persone in cima. Noi non dobbiamo essere in cima e chiamare i nostri studenti incitandoli dall'alto a camminare per raggiungerci. Non è così che si và in montagna e non è così che si dovrebbe insegnare, per me. Si dovrebbe partire tutti insieme dal basso, camminare insieme, magari indicando il sentiero migliore a un bivio o i punti critici da evitare- anche perchè in tutto questo processo le persone ci guardano e ci imitano (l'insegnamento è costante, anche quando non stiamo insegnando). Alla fine lo scopo dell'insegnamento non dovrebbe essere quello di portare le persone sulla nostra cima, ma dovrebbe essere insegnare loro a camminare sui sentieri. Poichè solo così le persone saranno in grado, in futuro, di salire sulle LORO cime. 


Infine: Questo non è che un tentativo di tradurre le vaghe sensazioni e le poche certezze accumulate in questi anni di pratica e insegnamento per scritto. E' pur sempre un diario. Non è la verità, neppure per me. E' il desiderio di saldare il debito che sento col parkour, che tanto mi ha chiesto e che tantissimo mi ha dato. E' un amante al quale sono devoto. Ed è anche per questo che insegno. Per restituire qualcosa di quanto ho ricevuto.  Non ho l'ardire di portare avanti la ricerca di Gato,  ma è anche grazie a lui se sono quello che sono. Glielo dovevo. 







 


sabato 31 maggio 2025

Mi sentivo nudo, sulla via ferrata.

 Da pochi mesi è stata creata la prima ferrata della provincia di Varese. Appena ne ho letto mi è tornata immediatamente alla mente quella fatta con Perez. La mia prima ferrata. Un incubo. E credo di non averne mai scritto in realtà. Chissà perchè. Comunque fu una delle esperienze più estreme della mia vita. 

In ogni caso dopo quella ne ho fatta solo un'altra. Quindi ho pochissima esperienza, anche se mi affascinano. Così oggi l'ho cercata. Nella mia immaginazione l'idea era quella di  fare solo una breve esplorazione, fare qualche prova ben ancorato e poi magari un giorno tornare e farla con più confidenza.  Ho imparato a diffidare delle guide che le descrivono ( sia sotto che sopravvalutando le difficoltà e la lunghezza) e volevo vederla coi miei occhi per saggiarla. Bene. La microavventura prevedeva alcuno obbiettivi da raggiungere in ordine:

  1. Trovare la ferrata;
  2. Approcciarla con estrema cautela essendo da solo e avendo molta paura sia di arrampicare sia delle altezze;
  3. Tornare a casa vivo.
Dopo un'ora e mezza di cammino l'ho trovata. obbiettivo numero 1 raggiunto. Tiro fuori dallo zaino il kit ferrata, il casco... e li indosso. E poi realizzo che il kit ferrata non è un imbrago, è un kit da ferrata DA LEGARE all'imbrago, che ho lasciato a casa. Cosa faccio, torno a casa? eh no. Il karma aka la mia demenza senile mi ha condotto evidentemente a questo punto.  Così ho alzato lo sguardo e ho immaginato come procedere, il vecchio mental game del Danilo semi trasparente che esegue tutti i movimenti necessari, mette i piedi dove vanno messi, le mani che prendono gli appigli con la forza necessaria ma non eccessiva, per non  ghisarmi gli avambracci a metà e rischiare di cadere vittima del panico. 








La tocco, inizio a provare un pezzetto. La partenza è il pezzo peggiore. Strapiombante e verticale, per poi virare a creare un lungo arco di traverso, scendere in una sorta di camino per poi risalire e finire il lungo arco. Troppo difficile. Sono sceso con le mani sudatissime e già un pò doloranti per aver stretto così forte il cavo e le staffe. Vado a vedere come finisce, dalla parte opposta. 
Molto meglio questo lato, che inizia dolcemente e con diversi appoggi. Così ho provato a salire una decina di metri da questa parte: i battiti cardiaci sono saliti in fretta, ma imponendomi di fare tutto con calma e di tenermi appena al cavo come fossi un ragnetto il cedimento muscolare non è quasi arrivato. Ho fatto una pausa agganciando entrambe le braccia al cavo: questo mi ha fatto si riposare, a comprimendo i gomiti tutto il sangue che gonfiava gli avambracci è rimasto lì facendomi sentire affaticato. Ora di scendere! Camminando avanti e indietro ho fatto per studiarla, ma in realtà nella mia testa stavo solo decidendo: quello che avrebbe dovuto essere un percorso di avvicinamento graduale nell'arco di parecchie uscite, si fa oggi.

Immaginavo che oggi l'avrei fatta con il kit e l'imbrago, e già sarei stato contento di farla in solitudine, per poi fra un pò di tempo tornare lì molte volte e farla con sembra maggiore confidenza fino a farla un giorno, chissà, usando meno volte i moschettoni del kit, e poi forse in futuro, farla libera. Ma ero già lì. Cosi mi sono deciso: Sono da solo, se mi succede qualcosa sono guai. Proverò andando con grande prudenza e potendo tornare in ogni momento indietro. Reversibilità, come mi ha insegnato il buon Lorenzo riferendosi al metodo Feldenkrais. Niente panico. Si respira, si và. In ogni momento non sarò mai solo appeso sulle braccia, per non ghisarmi  ma anche per non scivolare con le mani sudate, dato che non ho i guanti da ferrata. 

Ovviamente ho deciso di partire dalla partenza ufficiale per liberarmi da fresco del punto peggiore, lo strapiombo verticale. Piano, un passo per volta .

Ho scelto di farla, nonostante avessi dimenticato a casa l'imbrago perchè mi è sembrato un esempio perfetto di cosa significhi essere un praticante: Avere abbastanza forza fisica da poter gestire quel tipo di sforzo e abbastanza forza mentale da rimanere freddo e lucido. Un corpo in forma, autocontrollo, e non essere schiavo dell'essere over protetto, come il mondo desidera per noi.  Proprio le sfide che il parkour ci lancia. 


Avevo bisogno di sentirmi esposto, vulnerabile, per poter esercitare quel controllo dato dalla pratica meditativa. Seduto su un cuscino in casa non è una vera prova. 

Vogliamo essere giardinieri in guerra o guerrieri in un giardino? (Grazie per questa frase illuminante, Vecchio Taoista). 
 In un certo senso è stato anche divertente.

Lentamente e prendendomi tutte le pause che servivano nei punti più sicuri, ce l'ho fatta.  Ho fatto una ferrata da solo e slegato. Un bel breaking jump. Per fortuna non c'era nessuno a cui dover dare spiegazione o che stesse a guardare. Grande soddisfazione per un'altra paura sconfitta.













domenica 30 marzo 2025

Stealth parte due: Foresta

 





Sono passati 5 anni dal primo post sullo stealth e dal video (che potete trovare qui ) che girai per provare a condividere i primi mesi di ricerca in quell'ambito. La ricerca è andata avanti e così il mio allenamento. Tanto da aver tenuto quest'anno un workshop su stealth e Buddhismo Zen nella stessa giornata.  E' stata la prima volta che in cui ho condiviso con l'insegnamento i frutti di questa pratica e degli anni di ricerca. Qualcosa che spero di ripetere. 

Per tornare alle pratiche di furtività il video appena uscito  (questo, assurdo incredibile, andate a vederlo ) è dedicato esclusivamente alla pratica in ambiente naturale. Le linee guida generali sono le stesse del post scritto nel 2020.  Ma ho dedicato parte dell' allenamento ad alcuni aspetti che volevo migliorare e approfondire. Ci sono alcuni aspetti della pratica di cui non è ancora il momento ( forse non lo sarà mai) di parlare, qui. Ma per iniziare da quelli più pratici:


-Corsa. L'esercizio per eccellenza. La semplice capacità di coprire delle distanze sul terreno coi propri piedi era vitale all'epoca del Giappone feudale così come lo è per le forze d'elite degli eserciti di tutto il mondo.  Non a caso ogni esame fisico per entrare a far parte di forze speciali include una parte di corsa su lunghe distanze.  A corpo libero o equipaggiati con zaino, armi e scarponi. 

Correre per brevi distanze ad alta velocità. Un umano deve essere in grado di fare uno scatto di 50, 100, 400 metri. Per entrare rapidamente in un territorio o per fuggire da esso.

Correre per lunghe distanze con e senza sovraccarico. La corsa è ad oggi uno dei metodi più efficaci per costruire forza e resistenza in termini di resistenza fisica e psicologica.

Aumenta la resistenza al dolore, alla fatica, alla stanchezza. Migliora la densità ossea. Abbassa la frequenza a riposo del battito cardiaco. Migliora il metabolismo. Migliora la circolazione periferica e polmonare. Negli ultimi tempi quando corro nella foresta lo faccio con scarpe minimali per ridurre il rumore provocato dai passi. A volte faccio uno o due km con una piccola zavorra nello zaino cercando di farlo su terreni irregolari per rimanere lucido nello scavalcare ostacoli e per variare il ritmo.


-Mimetismo con materiale naturale. Facile portandosi tutto da casa. Bisogna sapersi adattare e imparare  a raccogliere il materiale necessario sul posto. 

-Controllo del respiro  e del battito cardiaco subito dopo una corsa e nelle posizioni statiche di attesa, come la posizione prona e rannicchiata. 

-Pratica con le armi tradizionali. Anche se non in maniera consistente ho comunque dedicato del tempo per migliorare la mia mira con il fukiya (la cerbottana) e con la fionda, aumentando mira e distanza di tiro.

-Arrampicata e movimenti sugli alberi (sia orizzontali sia verticali). Sta migliorando la forza di presa, la resistenza alla fatica muscolare, la mobilità delle spalle e la capacità di gestione delle altezze.

-Capacità di stare immobile. Sento che lavorarci sta migliorando la resistenza psicologia al disagio di posizioni scomode, la freddo, all'umidità del terreno e permette agli animali di non  percepirmi più come una minaccia e così facendo si è più fusi e mescolati all'ambiente.




 "L'adattabilità è la chiave che apre le porte di tutte le sfide."- Fujibayashi Nagato




martedì 7 gennaio 2025

Sangha

 







Il Sangha è, nel gergo Buddhista, la comunità di monaci, monache, laici e laiche che praticano il buddhismo. Per me nel tempo ha iniziato a significare qualcosa di più della sola massa di persone che praticano l'ADD/parkour.  Quella è "la comunità". Persone che praticano la stessa attività. Qualcosa di cui non mai riuscito a sentirmi davvero parte. Mi sono sempre sentito un pò al di fuori. Un emarginato, per quanto auto escluso. Ma negli ultimi tempi quello di sangha è un concetto che continua a girarmi dentro. 

Ci sono persone che si allenano meglio da sole. E va benissimo così

In me invece c'e' sempre stato un conflitto ( uno dei molti): da una parte sentivo disperato il bisogno di sentirmi parte di una famiglia, di un gruppo di persone accomunate dalla stessa passione e dagli stessi valori, e puntualmente ai raduni mi sentivo invece a disagio, lontano dagli altri. Dall'altra sono sempre stato combattuto nel cercare di capire se fosse giusto allenarmi da solo o con gli altri. Credevo che per essere forte dovessi progredire in solitudine, senza bisogno di nessuno. Molti problemi interiori irrisolti insomma, niente di nuovo. 

Ora ho fatto la pace con questa confusione. Ho capito che per stare bene devo alternare momenti di solitudine ad altri di compagnia. Compagnia di persone random e di persone significative. E quest'ultima modalità è quella che io chiamo il Sangha.

Dentro di me c'e' un desiderio di condividere il processo dei salti, dello sbloccarli, del tenere unito, delle gioie del successo e della frustrazione dei tentativi con persone significative. Di qualcuno che abbia la sensibilità di capire le mie difficoltà senza banalizzare paura e disagio. Di empatia.  Di tenerezza. Non con persone casuali. Praticare con persone significative significa, è vero, che saranno sempre pochissime e in poche occasioni, perchè siamo tutti adulti e ognuno ha i propri impegni e le difficoltà che sappiamo. Ma quando ci si trova si crea un'alchimia che genera e accresce i legami, è telepatia tra persone molto diverse. E' un boost istantaneo del proprio allenamento.



 Ed è qualcosa che nel mio caso sblocca un potenziale di capacità molto grande, rispetto a quello che riesco a fare da solo, a meno di enormi sforzi. Anche questo è un punto importante. Per molto tempo non capivo il motivo di questa differenza. In fondo sono sempre io che faccio quel salto, non gli altri. Eppure per qualche  motivo biologico o psicologico in compagnia di alcune persone sento di essere molto più forte, più confidente, ma soprattutto IN PACE. Ho rotto dei salti mai fatti con incredibile leggerezza d'animo rispetto a quando li ho allenati da solo. Non ho trovato ancora una risposta certa a questo meccanismo interiore, a questa porta del chakra che si apra permettendomi di esprimere le mie vere capacità. Ma sento che è giusto, e tanto basta. Non mi sembra più una sorta di barare con la pratica. Credo però che tutto questo non provenga solo dal trovare le persone giuste, ma dal diventare noi stessi le persone giuste. Io negli anni ho lavorato tanto per iniziare ad avere un rapporto migliore con la mia paura e con la mia pratica. Quindi a lamentarmi meno. Quindi a diffondere un'energia diversa intorno a me. Cosa a cui non pensavo e che ora ritengo importantissima. Sappiamo tutti bene che con certi praticanti ci riesca naturale allenarci e che con altri ci troviamo a disagio. Così, a pelle. Non lo capiamo bene ma è una sensazione forte e  che non possiamo ignorare. Sono sempre più convinto che sia dovuta all'energia che ci trasmette qualcuno, qualunque cosa questo significhi. Ora so che per tanto tempo sono stato un peso, più che un compagno di allenamento. Esprimendo sempre e subito le mie paure, lamentandomi. Ora è cambiato.  Non identifico più il mio valore nei salti che faccio. Non mi importa di fare tutto subito e perfetto. Ora apprezzo la pienezza della paura, il suo sapore. Ho imparato a viverlo come parte della pratica.   Questo ha secondo me fatto cambiare anche la percezione che gli altri hanno di me. 


La cosa più interessante è che questo rapporto sembra essere reciproco. Pare che in qualche misura io faccia lo stesso effetto a loro, permettendo a questi umani di rimuovere una sorta di blocco e di esprimere non solo più tecnica e più potenza, ma anche più gioia nel processo stesso del rompere un salto difficile, rispetto alla frustrazione e ai lunghi tentativi di un tempo. Questa sorta di scambio equivalente, di alimentare a vicenda il fuoco interiore credo sia quello che ha fatto dei primi praticanti, i fondatori. Persone che hanno trovato nei loro compagni e compagne di allenamento più di una famiglia. Ma una vera e propria tribù. Un legame che forse, a causa della fiducia necessaria nello spottarsi e della consapevolezza di rischiare la vita insieme, forse è un legame più forte di quelli di sangue. Se troveremo le persone giuste possiamo essere non soltanto praticanti che si allenano, saltano sulle cose. Ma FORZE TRAINANTI per gli altri, motori in grado di progredire e far progredire, come degli enzimi che scatenano reazioni a catena esplosive.

Ora non posso che provare gratitudine per queste persone. 

Chi legge saprà a chi mi rivolgo. 




 


forza trainante

domenica 3 novembre 2024

Traversata della Val Grande: due giorni perfetti

 Come sempre quando parlo di trekking non descriverò nel dettaglio il percorso fatto, le difficoltà e punti salienti, ma le mie emozioni a riguardo e quello che mi ha colpito e fatto riflettere. Per le guide internet è già pieno di ogni dettaglio. 

Cercavo la bellezza e la contemplazione dello spirito autunnale. Dopo il thrualps di questa estate dove non ho potuto decidere il ritmo da seguire avevo voglia di fermarmi ad ascoltare ogni cascata, ogni   sfumature di colore delle foglie e persino le venature dei massi che  avrei incontrato. 

E così ho fatto.

 La Val Grande è l'area wilderness più estesa d'Italia, oltre a essere parco nazionale dal 1992. Per poi essere stato ampliato nel 98. Comprende una serie di ambiente a protezione graduale. In alcuni si possono fare alcune attività, altri sono solo attraversabili, e in alcune aree è vietato l'accesso, per preservare completamente la flora e la fauna dall'influenza dell'uomo. 

Da tempo pensavo di fare questo breve trekking, ma la fama di area selvatica e pericolosa mi intimoriva. Nel frattempo mi sono fatto un pò di esperienza qua e là fino a sentirmi pronto. Alla fine ho scelto di fare la traversata più classica e ben segnalata, da sud-ovest a nord da Premosello a Malesco. Ho scelto di farla in direzione contraria a a quella che tutti di solito fanno sia per evitare di incontrare troppe persone, sia per fare in salita la mattina del primo giorno quella che altrimenti sarebbe stata una discesa spacca ginocchia il pomeriggio del secondo. Ed è stata un'ottima scelta. 

Anzi oso dire che per quanto breve ( 31 km che volendo si potrebbero completare in giornata) questo sia stato forse il trekking perfetto: dopo settimane di pioggia si era aperta una finestra di bel tempo con cielo perfettamente limpido, temperature medie perfette, il parco in pieno foliage di faggi, betulle e larici a quote più alte, pochissime persone incontrate e la possibilità di sfruttare il ponte del primo novembre per fare questa traversata venerdì e sabato, invece di sabato e domenica, incontrando ancora meno gente. 

La Val Grande non è un parco addomesticato, per quanto non sia impossibile attraversarlo e viverlo. Però può rappresentare una sfida. Non tanto per la possibilità di perdersi fisicamente, che comunque è presente, ma per quella di perdersi a livello emotivo, spirituale. Ci sono boschi isolati, antichi, dove il silenzio è quasi inquietante. Dove per qualche motivo gli uccellini non cinguettano e le foglie che cadono non fanno rumore. E' quello che io andavo cercando. Volevo entrare in contatto con questi boschi e queste cime silenziose. Camminando, sedendomi, fermandomi ad ascoltare.  Ora un piccolo riassunto del giro fatto: 

Su consiglio del buon Francesco ho fatto la traversata da sud e seguendo la sua traccia. Grazie Fra.

L'unico piccola preoccupazione è stata arrivare in tempo a Malesco per prendere il treno che ho dovuto prenotare in anticipo (a causa della grande affluenza, è famoso perché permette di ammirare il foliage della valle a bordo di un trenino su rotaia a scartamento ridotto che costeggia le montagne immerso nel bosco), ma non si è rivelato un vero problema. 

Sono partito alle 6 e mezza di mattina lasciando l'auto alle 7 e mezza a Premosello, da dove il grande muro di montagne che forma la porta occidentale della Val Grande fa paura. Sembrano insuperabili. E in effetti per poter accedere alla porta occidentale bisogna superare in una botta i 1500 metri di dislivello dal paese di Premosello all'alpe La Colma in 8 km.  Sono salito immerso in faggi dai mille colori. Ho fatto molte pause per ammirare tutto quello che avevo intorno e per il  molto caldo, esposto a sud.  Si sale ancora su una gippabile, poi immerso nel bosco scivoloso di foglie bagnate all'ombra o croccanti al sole. Verso le 3 di pomeriggio sono arrivato ai bivacchi di In La Piana, dove alle 6 era già buio e ho ammirato a lungo le stelle. Ho passato una notte agitata da strani sogni di caldo e di spavento. Alle 5 ero in piedi e alle 6 sono partito, col bosco che era un'unica pozza di inchiostro nero. Sono partito presto sia per arrivare in tempo a Malesco senza correre sia per non avere gente intorno. Mano a mano che la foresta si svegliava ho iniziato a vedere di nuovo i colori, sono ripassato davanti alla cascata sotto alla quale il giorno prima ho fatto un bagno purificante, poi ho attraversato il ponte tibetano completamente bagnato di rugiada e scivolosissimo. Qualche ora dopo ero al punto più alto della traversata, Alpe Scaredi 1850, da dove di fronte si vedevano le montagne delle alpi lepontine e centrali, e dietro la splendida catena del Monte Rosa, del Dom, del Cervino. Da li inizia la lunga discesa verso Malesco. Mi sono ingegnato a fare un caffè usando il fornello ad alcool e dei sassi e ho iniziato scendere. Dentro di me cercavo di comporre, come Basho, qualche verso, ispirato dalla bellezza delle cime lontane o dei colori dei faggi davanti a me, ma nulla è emerso. 

Così mi sono limitato a sedermi in meditazione in un angolo al sole poco sotto la cima lavorando solo sul vivere quel momento senza malinconia. Sono stati due giorni troppo belli per intristirmi riflettendo sulla solitudine che vivo o sulle altre cose che gettano ombre. Il lavoro principale è l'accettazione senza attaccamento ai desideri. Che non significa accettare tutto passivamente o non avere desideri. Significa non esserne schiavi. Non attaccarsi alle cose che temiamo di perdere o che vorremmo avere.Il desiderio di avere una compagna, qualche soldo in più per non dover decidere se a fine mese poter fare la spesa o pagare quella bolletta, l'invecchiamento, la morte stessa. Temi da affrontare serenamente senza stupidi tabù e senza superstizione. 

Così riflettevo, una volta rimessomi a camminare, fino a quando distrattamente sono stato tradito dalle mie scarpe completamente consumate che non offrono più alcun grip sulla roccia bagnata, dopo due giorni in cui ero riuscito a guadare 50 torrendi senza mai bagnarmi, ho infilato un piede in una pozza profonda fino al ginocchio! Dopo un attimo di incredulità sono scoppiato a ridere e mi sono accorto che camminavo immerso in quelle meditazioni buddhiste invece di essere presente! Il resto della discesa l'ho fatta stanco ma sereno, di nuovo sveglio alla realtà. Quanta bellezza ho attraversato in un giorno e mezzo. Infine sono arrivato a Malesco, e dopo 4 cambi di treno per problemi vari sono tornato a casa a coccolare Subhuti, che avendo subito anche lui la sua dose di solitudine si è guadagnato una scatoletta intera di cibo premium.




















 

"Sera d'autunno-

da solo faccio visita 

a un'altra solitudine."- Yosa Buson




sabato 12 ottobre 2024

Il Tao dei breaking jumps



Ho costruito questo post  mentre leggevo il libro di Laurent e dopo aver ripreso in mano dopo molto tempo i testi fondamentali sul Jeet Kune Do.  

L'idea fondamentale del Daodejing è il seguire la natura, nel senso di non agire (wu-wei), il cui vero significato è quello di non compiere alcuna azione innaturale. Significa spontaneità, e cioè mantenere tutte le cose nel loro stato naturale, permettendo loro di "trasformarsi naturalmente". In tal modo "nulla viene intrapreso e tuttavia nulla viene lasciato incompiuto".

 Rileggere ultimamente queste parole di Bruce Lee sui princìpi del taoismo mi ha fatto sorridere, perchè prima ancora di scoprire il parkour leggevo i suoi libri, prendevo appunti, credevo di aver capito le idee che coltivava e la sorgente della sua filosofia, quella che poi avrebbe fatto germogliare il Jeet Kune Do.  Ma avevo 14 anni. Non capivo molto, anche se ne ero innamorato. 

il sentiero che porta al miglioramento nella mia pratica sta passando, in questi ultimi tempi, dall' usare un approccio diverso nell' allenamento. Diverso da quello che ho avuto per molti anni, influenzato da idee che da ragazzo avevo appreso, frainteso e radicalizzato. Pensavo che avere paura fosse un segno di debolezza, e più ne avevo più mi sentivo inadeguato. Un impostore. Credevo che essere dei praticanti dovesse significare spingere sempre tutto, sforzarsi, sbattere contro gli ostacoli a testa bassa, fino ad abbatterli. Vincerli tramite il proprio coraggio e la propria forza. Questo principio calzava come un guanto per il mio carattere rabbioso, introverso e sostanzialmente insicuro. Usavo la rabbia sviluppata durante l'infanzia come un potente carburante per alimentare il fuoco dell'allenamento. Che portava si dei risultati, ma il prezzo da pagare era alto.  Frustrazione, nuova rabbia, infelicità se le cose non mi riuscivano ( e sa il cielo sopra Varese quante non me ne riuscivano rispetto a quelle che mi riuscivano). Sono cresciuto vedendo intorno a me esempi di praticanti forti e coraggiosi che sembravano non temere nulla. Né il fallire né il farsi male. 

Decidevano di rompere un salto e lo facevano subito. Senza perdere tempo e paturnie.

Li ammiravo ma nello stesso tempo iniziavo a sentire che era inutile imitarli, non avrei mai potuto incarnare quel tipo di approccio. Mi ci sono voluti molti anni per capirlo. Anni di bruciante amore per la pratica, ma anche di dolore. Eppure non ho pensato neanche una volta di smettere, nonostante tutto.  Per fortuna, lento come sono a capire le cose, ho praticato abbastanza tempo da iniziare a realizzare cosa mi serviva. 

Un abbraccio. 

Un abbraccio gentile dato a me stesso, guardandomi negli occhi e dicendomi che non c'e' fretta. I salti che vuoi fare arriveranno. Certo, il coraggio servirà.  A volte un approccio gentile ai salti non sarà possibile. Quando servirà potrò ancora attingere a quella rabbia, se messa al servizio e usata a fin di bene.  Ma non è più necessario l'odio, per riuscire. 

Negli ultimi anni ho potuto usufruire di nuove influenze. Compagni di allenamento che non posso non definire benefici, per quanto meno frequenti di quelli avuti per tanti anni a Varese. Persone gentili che mi hanno insegnato parole che non conoscevo. Ascoltarsi, cercare strade alternative, progressioni e regressioni, sbagliare apposta e divertirsi.  Divertirsi nella pratica.   #ioconfuso.





Per fare tutto questo però prima ho dovuto affrontare un processo ( non nel senso di progresso, ma di vero e proprio processo giudiziario in cui mi sono trovato a essere imputato, avvocato della difesa e giudice) per non sentirmi più colpevole. Colpevole di non fare un salto subito e senza paura. Ero colpevole e reo confesso di voler essere qualcosa che non ero. Forte e coraggioso come l'idea di come avrei dovuto essere, e che puntualmente deludevo. Ho dovuto imparare a non identificarmi né nei salti che facevo né nella pratica stessa. 
Ho dovuto fare una divisione tra il mio valore come umano e e i salti che faccio. Mi lasciavo definire dalle mie possibilità di quel momento, senza lasciarmi lo spazio per nuove possibilità future.  Questo è un punto cardinale perchè sento che è da quel preciso momento che è iniziata la mia liberazione personale come praticante: quando ho smesso di identificarmi nella mia pratica tutto è cambiato. 
Tutto tranne la voglia di spingere e sviluppare la forza e la tecnica suprema.

Perchè sto facendo questo? Perchè dopo 19 anni di pratica continuo a mettere in discussione il mio allenamento e i motivi che mi spingono a praticare? Prima di tutto perchè non posso farne a meno. L'ADD, il parkour, il movimento, mi brucia dentro da sempre,  e come ogni cosa viva cambia, si trasforma. Poi perché anno dopo anno mi sto liberando sempre più delle tradizioni, dei modi di fare che si fanno solo "perché è si è sempre fatto così", delle cerimonie, dei formalismi.  Nella mia vita io voglio compiere l'opera senza esserne orgoglioso,  coltivare le cose senza prenderne possesso. Perciò il mio modo si pone complemento a tutti gli artifici, le regole, la formalità.  Voglio esprimermi nell' Art Du Deplacement  con onestà.
 " In definitiva per me, le arti marziali sono un modo per esprimermi onestamente. Esprimersi onestamente.. è molto difficile da fare. Voglio dire, è facile per me fare spettacolo ed essere arrogante ed essere inondato da un sentimento di arroganza e poi sentirmi piuttosto figo...o posso fare un sacco di cose false, accecato da questo  posso mostrarti qualche movimento davvero fantasioso. Ma esprimersi onestamente, senza mentire a se stessi...amico mio, è molto difficile da fare." -B. Lee, sulla natura delle arti marziali.


In ogni caso sto imparando ad utilizzare questa via morbida nei movimenti nei quali sono sempre stato più timoroso. Kong, running precision, ma soprattutto nel lavoro sulle altezze, dove prima mi paralizzavo. 

In sostanza, questa via morbida per sbloccare salti che fanno paura passa da alcuni concetti che si possono applicare quasi sempre:

Gradualità: sembra banale, ma entrati nella cosiddetta send culture, io faccio un passo indietro e mi prendo tutto il tempo per progredire con deliberata calma verso un salto. E' necessario sviluppare un pò di creatività per trovare le progressioni e le regressioni possibili o quelle necessarie in quel dato contesto e per quel dato salto. Ma si può fare. Così facendo sto trovando più stimolante che stressante un lavoro che prima magari mi avrebbe consumato il sistema nervoso in pochi minuti, potendomi in questo modo avvicinare meglio all'obbiettivo. Se ad esempio ho uno stride da fare su muretti in altezza  e ognuno dei passi dello stride è diverso dall'altro perchè i muretti sono tutti a distanza diverse non mi limito più alla solita progressione lineare, ( ne faccio uno, poi l'altro poi il terzo singolarmente per poi unirli) ma prendo il problema da un altro punto di vista. Prendo confidenza col fatto di usare un solo piede per volta, andando avanti e indietro camminando, faccio piccoli stride sul posto. Sto usando bene le braccia? Com'e' il lavoro di swing delle gambe? e i piedi come li sto appoggiando? Che tensione emotiva ho nel tronco? Che contenuto emotivo sto avendo quando sono in aria e quando atterro? Poi in pliometria. Poi uno stride e due plio, due stride e solo l'ultimo in plio, poi tutto. Ma rimanendo sereno, così da evitare la sindrome da secondo tentativo. 

Godere dell'insuccesso e sfruttarlo: qualcosa che sto avendo ancora difficoltà ad implementare con consistenza nel mio allenamento, così abituato alla classica formula  del "prova finchè riesci e una volta riuscito ripeti fino all'interiorizzazione."  Godere dell'insuccesso è qualcosa che sto apprendendo dai principi del Feldenkrais e che in pratica si fa sbagliando apposta un salto in molti modi diversi. Sbagliare deliberatamente è stato per me un mindblowing non da poco, quando non era per provare le tecniche di salvataggio dell'ukemi, perché significa si sbagliare un salto, ma non tanto da dover fare un salvataggio. E' più fare dei micro errori nell'assetto aereo o all'atterraggio così da doversi adattare all'istante e arrivare comunque incolume. Questo sistema crea delle inaspettate aperture alla creatività: 

  • permette di immaginare varianti più difficili dello stesso salto;
  • fare varianti più difficili rende il salto target più facile;
  • avendo fatto varianti difficili so di potermi salvare, questo a sua volta dà la sicurezza necessaria al provare il salto target con mente più calma e quindi con una tensione emotiva minore e quindi con maggiore controllo:
  • tutto questo fa vivere con minore pressione la progressione verso il successo, e fanculo la send culture.


Non forzare: "ora è il momento giusto per farlo. Ora o mai più." Questo discorso interiore và fatto e vissuto. Bisogna vivere con la massima presenza mentale e con la massima intenzione quello che ci si è messo in testa di fare. Impegnarsi davvero. Ma detto questo non muoio se non lo faccio oggi. Si può tornare  domani a farlo. Non succede niente.





Queste semplici idee stanno facendo germogliare in me una pratica diversa. Una pratica più serena ma non per questo meno spinta. A 35 anni sto spingendo salti che non avrei fatto a 20 o a 25 anni, ma senza il dolore interiore di prima. Sento questo cambiamento come l'appropriarmi lentamente e sempre di più della mia vera pratica, sempre più ADD  e sempre meno parkour. Questa sembra una frase da poco ma per me significa molto. Per molti anni ero granitico sulla mia posizione. Avevo scoperto questa disciplina col nome parkour, e così l'ho sempre chiamata. La guerra tra i fondatori non era la mia guerra. La capivo ma non mi importava, non avevo nessuna voglia di combattere una battaglia che non era la mia. Avevo già le mie di cui occuparmi. Ma negli ultimi tempi questa idea è cambiata. Non soltanto perché ho avuto modo di comprendere più a fondo ciò che lega e divide il parkour e l'ADD ma anche perché la mia stessa pratica si è via via trasformata. Non forzando il processo, esso è venuto da sè. 


 












mercoledì 28 agosto 2024

Thru alps: 160 km a piedi attraverso le Alpi

 


In Trentino c'e' un uomo, un mio coetaneo, che nel 2018 ha percorso a piedi i 4218 km del Pacific Crest Trail, un sentiero negli Stati Uniti. Una volta tornato ha deciso, dopo varie vicissitudini, di diventare una guida. Di accompagnare le persone alla scoperta di quella dura bellezza che la natura sa offrire, quel segreto che si svela solo a chi fa la fatica di inerpicarsi con le proprie forze lassù, tra le montagne. Io ho conosciuto Lorenzo perchè cercavo info su quel famoso sentiero da lui percorso, ma poi l'ho contattato perchè mi interessava la sua visione dell'hiking, molto simile alla mia. Infine qualche anno fa ci siamo trovati a camminare per un paio di giorni insieme, in questo  percorso.  Dopo quella volta mi sono ripromesso che non avrei più camminato in montagna in compagnia. Sia perchè sono un solitario sia perchè ho bisogno dei miei ritmi, di pause di contemplazione. Correre in autostrada non fa per me. Ho bisogno di prendere strade lente per apprezzare il mondo intorno. 

Poi però Lorenzo nella figura di guida ha proposto qualcosa che appena ho visto ho subito sentito come una sfida per le mie capacità di hiker indipendente che si sta facendo le ossa con percorsi sempre più lunghi fatti in autonomia: un trekking di 10 giorni e 160 km attraverso le alpi, alla ricerca di spazi poco frequentati e selvatici, belli e aspri. Nudi come la roccia. 

In autonomia.

Così ci siamo di nuovo sentiti per chiedergli informazioni varie su date, percorso, capacità necessarie ecc.

Troppo interessante ma...

 Fino a pochi giorni prima della partenza ero in dubbio. Ho un ginocchio che tende a fare i capricci quando deve affrontare lunghe discese, e nell'unica altra esperienza di trekking in compagnia ( proprio quel sentiero fatto con lui e un altro amico) si era infatti infiammato già alla fine del primo giorno, su un percorso di due. Temevo davvero di non essere in grado di completare qualcosa di simile. Il massimo che avevo fatto era stato un trekking di 4 giorni, con molto meno peso nello zaino, meno dislivelli, meno kilometri. E soprattutto andando al mio ritmo. La cosa che più mi turbava era il dovermi adattare agli altri. Però...quando ricapita un'occasione simile? 

Ci ho pensato a lungo. Alla fine ho deciso di proporre la mia partecipazione in cambio della mia esperienza con l'allenamento, la preparazione fisica e per la prima volta con la condivisione della mia ricerca sulla meditazione e sulla pratica del Buddhismo Zen. 

Lorenzo ha accettato e il primo passo era fatto. Non si torna indietro, nonostante i dubbi. 

Così è iniziata la pianificazione sull'equipaggiamento necessario, sul cibo da portare per i primi 5 giorni ( il resto lo avremmo ottenuto nell'unico paese attraversato nei 10 giorni di trekking, poco oltre la metà del percorso) e sull'atteggiamento da portare come partecipante  e come guida sui temi di cui fra poco parlerò.

il viandante sul mare di nebbia e il mio zaino pronto al viaggio. Il mio caro carlino 2.0


Perchè Thru Alps

L'idea da cui nasce questo trekking è che per potersi immergere davvero nelle sensazioni che la natura offre, sia spiacevoli che piacevoli, serve tempo. Serve rimanere lontano dalle continue distrazioni che il mondo ci propone, dai comfort della casa e dei servizi sempre pronti per una quantità di tempo sufficiente a riaprire gli occhi alla realtà che abbiamo davanti. Che è fatta di altro. E' fatta proprio di quelle sensazioni che abbiamo dimenticato di poter vivere come normali. E' fatta di molte migliaia di passi fatti in silenzio per poter scendere in profondità nei propri pensieri. Di panorami che sembrano eterni e sono continuamente cangianti, di ricominciare a esplorare sè stessi non più distratti ma finalmente presenti, presenti a ogni passo che si compie con attenzione, per non inciampare. 


Come dice Lorenzo nel suo sito, coltivare la bastevolezza. 


L'inizio del percorso


il primo shake down.

Il giorno prima dell'inizio del trekking sono partito da casa per poter riposare la notte a Trento, dove ho prenotato un hotel. Città bollente, che però si rinfresca un pò la sera dove ho girato, bevuto l'acqua di ogni fontana e abbastanza birra trentina da volermi sedere a godermi gli spruzzi del Nettuno di Piazza del Duomo.

Alla mattina del giorno di rendez vous ci siamo incontrati alla stazione e abbiamo preso il treno insieme fino al paesino tra Bolzano e Merano da cui siamo partiti. Non farò una descrizione minuziosa di ogni esperienza dei 10 giorni, sarebbe lunga e noiosa. Parlerò delle mie sensazioni e delle cose che più mi hanno toccato, commosso e turbato. 

Un gruppo di persone diverse tra loro, con approcci differenti al camminare in natura e nel modo di interagire con gli altri. Tutti maschi.  Eravamo in 7, anche se due ci hanno poi lasciato al quinto giorno.  Insieme a Lorenzo c'era Marco, che stava completando il suo tirocinio per diventare anche lui guida escursionistica. Un uomo pacato e positivo che ho imparato ad apprezzare nei giorni seguenti. 

Facilitatore

La sfida principale per me è stata  non isolarmi. Cosa non facile possedendo come già detto una natura piuttosto schiva e solitaria. Specialmente con sconosciuti e specialmente in un ambiente come la montagna. Però avevo anche il compito di proporre esercizi di riscaldamento, defaticamento, stretching. Sessioni di meditazione e di discussione sulla pratica e sulla natura della realtà. Senza alcun obbligo da parte dei partecipanti. Libertà assoluta di partecipare ad una parte o a tutto quello che avrei proposto nei giorni seguenti. 

Ho preparato una serie di riflessioni che avrei proposto all'avanzare del viaggio. Una sorta di programma molto flessibile che si sarebbe adattato alla natura delle persone e alla loro sensibilità. Alcuni sulla preparazione fisica utile a chi fa hiking, altri sulla connessione mente corpo, altri su temi quali Buddhismo e stoicismo. Ho tenuto conto anche della stanchezza, della noia dei partecipanti, della voglia  magari di riposare a fine giornata, o del desiderio di stare per conto proprio in certi momenti. 

L'idea prima di tutto era di non comportarmi da insegnante, non essendo un corso di parkour.  Ma da facilitatore, una figura a metà strada tra un compagno di classe con più esperienza e un docente. 

 L'essere in un ambiente come quello della montagna, in una valle deserta circondata solo da cime, torrenti e sassi ha amplificato nelle persone l'interesse e l'attenzione a certi temi. La propensione all'ascolto. Il primo giorno l'ho lasciato scorrere e concludersi senza proporre nulla, per permettere a tutti di prendersi il proprio tempo. Nei giorni seguenti, in base ai fattori descritti sopra, ho proposto, quando camminavamo, riposavamo o mangiavamo tutti insieme seduti in cerchio, delle attività.

Lunghi giorni e piacevoli notti



E' sempre molto difficile per me descrivere questo genere di esperienze, perché ogni dettaglio mi sembra essenziale e perché come chi ha viaggiato sa bene, il tempo si dilata. Non sono stati 10 giorni nella natura selvaggia, ma settimane. La percezione si...allarga.  Come miele che cola.

I panorami lentamente cambiano. Oggi siamo qua. Ieri eravamo là in fondo. Come è possibile?

Lorenzo indica col dito o più spesso col bastoncino da trekking il passo che abbiamo superato ieri, l'altro ieri. Questa forcella, quel ghiacciaio. Cielo... i ghiacciai!  Serpenti grigio-azzurri  a nord, a ovest, in ogni direzione. Lì il Bernina, là la Presanella. Laggiù il Wildspitze. Noi camminiamo, ci superiamo a vicenda quando qualcuno ha più energia,  a volte rallentiamo quando uno di noi deve mandare un fax ( il termine coniato per indicare il doversi appartare per andare in bagno) e quando succede colgo quei brevi momenti per riprendere fiato, stringere le cinghie dello zaino  togliere un sasso dalla scarpa, e poi, se avanza tempo, guardarmi intorno meravigliato. 

il punto tenda del primo giorno.


Tutto intorno è vento, laghetti alpini, animaletti ed erbe che si sono fatte dure per resistere alle condizioni inclementi dell'alta montagna. Se ti siedi spesso pungono. Ma siamo tutti in pantaloncini, scarpe da trail running, un approccio minimale e veloce. Personalmente mi piace perchè mi fa più vicino alla terra. Il freddo sulla pelle, la rugiada al mattino strusciando contro l'erba, il terreno.  




 I primi 5 giorni 

Durante i primi giorni il percorso era stato pianificato minuziosamente dalla guida in modo che fosse una sorta di preparazione ai giorni seguenti, più tecnici, con maggiori dislivelli e  passando il tempo a quote più alte. Infatti il problema principali all'inizio è stato il caldo, che anche sopra i 2000 metri si faceva sentire, e per non impiastricciarci di crema solare tendevamo a proteggere la pelle con vestiti che offrono un alto valore UPF.
 Questo permette, oltre a non farci diventare delle lumache unte e sudate, di potersi lavare nei torrenti senza inquinarli della crema spalmata sulla pelle. Questo accorgimento, come molti altri (anche il sotterrare la propria cacca facendo un buco con una paletta da ricoprire quando finito) fa parte di di alcuni princìpi importanti da usare in natura, soprattutto ad alte quote dove la decomposizione della materia organica è lenta se non quasi assente. Sono i princìpi del "leave no trace"  e servono a permettere a tutti di vivere e godere dell' ambiente che si attraversa lasciando la minore traccia possibile.  

Fame

Normalmente mangio molto poco, pur consumando una quantità abbastanza alta di calorie, grazie all'allenamento. Questo negli anni mi ha permesso di non concentrarmi troppo sulla dieta, pur mangiando obiettivamente male. E tendo a mangiare ancora meno  quando sono sotto sforzo. Così nei primi giorni avevo poco appetito e dovevo quasi impormi di prepararmi qualcosa a colazione o a cena. Pur consumando 4 o 5000 calorie al giorno, camminando tutto il giorno. Ma poi è avvenuta la mostruosa trasformazione!
Verso il quarto giorno ho iniziato ad avere finalmente fame. Una fame implacabile, rispetto ai miei standard. Pranzavo, mi sentivo pieno e dopo pochi minuti avevo di nuovo fame e sentivo lo stomaco vuoto. Mai successo prima. Ho evidentemente dato uno schiaffo al mio metabolismo facendolo svegliare dopo tanti anni di dieta sempre uguale.  E' stata una sensazione strana e piacevole. Ma insieme a quella il pensiero del cibo ha iniziato ad accompagnarmi più insistente del solito, durante la giornata. Ho raggiunto l'apice  di queste nuove sensazioni quando, al sesto giorno, siamo scesi nell'unico paese incontrato per poter fare il food resupply, il rifornimento di cibo. E nell'unico minimarket del paesino ho iniziato a vagare smarrito tra i pochi scaffali senza sapere cosa prendere, quanto prenderne, immaginando il potere calorico del cibo che mi serviva,  il fatto che non avrebbe dovuto annoiarmi per i prossimi 5 giorni e che non avrei dovuto farmi guidare solo dalla golosità del momento. Tutte sensazioni che ho cercato subito di contemplare come uno spettatore, come faccio quando medito. Osservavo me stesso e queste voglie, questa ansia con vaga curiosità. Ho comprato quella che mi sembrava una montagna di cibo, guardando poi lo zaino già quasi pieno e cercando di immaginare come avrei potuto farcelo stare tutto. Stessa cosa per tutti gli altri. Eravamo alla fermata di un bus, seduti per terra o sulle panchine a spacchettare tutto e a rimpacchetarlo  nei sacchetti ziploc per fargli occupare meno spazio mentre famiglie di turisti ben vestiti e profumati ci guardava di traverso, con le mamme che tenevano ben stretti per mano i propri bambini, non fosse mai che quei tizi strani e puzzolenti se li portassero via. 


Ferite casuali, letti che profumano di menta e caffè

Durante la sera, al secondo punto tenda,  mi stavo togliendo i vestiti per andare a lavarli nel torrente li vicino. Solo pochi metri dividevano la mia tenda dal letto del rio e perché non farli scalzo? Era un piacevole prato punteggiato da sassi ruvidi. Al secondo passo ho sfiorato un sasso col piede e una fettina di mignolo del piede sinistro è letteralmente volato via. Così. inspiegabilmente. Più che il dolore e il sangue è stata la sorpresa. Come se quel sasso fosse stato un opinel nuovo di fabbrica e il mio piede un salamino. Non un grosso problema, ma per altri 4 giorni ho dovuto tenere sempre un cerotto sul dito che sbatacchiava nella scarpa ad ogni passo ricordandomi di imparare a camminare con più prudenza in futuro. 
Ogni giorno abbiamo percorso dai 15 ai 18 km, fermandoci, quando il meteo lo permetteva, in boschi di larici pieni di lichene. 

o in meravigliose valli brulle. Che gli altri sentivano ostili e io più ospitali della mia stessa casa.  


Le mie notti di sonno migliori le ho fatte proprio in queste lande desolate.  Tornando ad avere pochi, semplici bisogni. Cibo, Acqua, Riposo, Calore. Mi fermo su quelli che sembrano solo dettagli proprio perchè nella nostra vita quotidiana queste cose sono scontate, mentre dal secondo o terzo giorno si inizia a capire che sono TUTTO. A casa apriamo il rubinetto e abbiamo acqua pulita infinita, in bagno carta igienica infinta e acqua per il bidet. Apriamo il frigo e il nostro problema è cosa mangiare, non SE mangiare.  Questa è la bastevolezza. Apprezzare l'essenziale. La notte del secondo giorno, sotto il Mandelsplitz, mi sono ritrovato stupidamente a sorridere nel buio mentre mi lavavo il sedere con dell'acqua gelida, in un torrente, sotto una stellata assurda. Gli altri dormivano. Io mi sono sentito completo laddove un altro si sarebbe sentito miserabile.

 Fino quando al tramonto del quarto giorno abbiamo deciso di fare una pausa caffè in una malga e li io ho deciso di meritarmi una doccia calda e un letto, cosa che una volta non avrei mai fatto, tutto rivestito del mio codice morale farlocco che mi avrebbe fatto sentire in colpa. Peccato che ormai mi ero abituato a dormire per terra e ho dormito pochissimo, pur essendo il letto morbidissimo e con le lenzuola che profumavano addirittura di menta. Il sogno di chiunque. Eravamo a 2100  metri e anche gli altri hanno in realtà dormito male quella notte nelle loro tende fuori dalla malga. Troppo caldo. 

La mattina successiva ci siamo alzati alle 4 e 30 perchè per la tarda mattinata davano pioggia e volevamo sfuggirle. Quindi abbiamo fatto una rapida colazione alla luce delle torce frontali e abbiamo affrontato immediatamente la ripida salita al passo che ci avrebbe fatto scavalcare il passo Palù a 2400  e poi avanti e sempre più in alto, fino ad un passo senza nome a 2900 mt che ci ha dato il benvenuto nella bellissima val di Rabbi con vista sulla val d'Ultimo. 

Certe mattine, come quella, le gambe erano pesanti. Di legno. Maledetti macigni, motori ingolfati che non vogliono saperne di partire.  Non è sempre tutto poesia e contemplazione. Spesso le gambe fanno davvero male, i muscoli trapezi cercano di combattere il peso dello zaino che tira giù le spalle rimanendo dolorosamente contratti per ore. Le piante dei piedi dolgono per tutti i km ma anche perchè le mie scarpe erano alla fine della loro vita, stanche e bisognose anch'esse di riposo. In altri momenti si andava forte e i piedi volevano in quelle valli silensiose. Luoghi impervi. Si entrava e si usciva dalle nuvole. Si raccoglie acqua, si mangia una barretta camminando. Il mio grande dispiacere per tutto questo trekking è stato non avere il tempo di fermarmi a contemplare. Ma capivo che c'era una tabella di marcia da rispettare, essendo in gruppo.  Si faceva giorno e ho osservato il sole sorgere su Cima Sternai 3443 metri. Una piramide di roccia di varie sfumature di rossi che la facevano  sembrare un pò il Vinicunca, la montagna arcobaleno peruviana. Ossido di ferro, manganese, granito. 

Poi abbiamo pranzato in un rifugio e appena abbiamo finito si è messo a piovere. siamo rimasti fuori ad ascoltare la pioggia sotto una tettoia mentre tutti si riparavano all'interno. Nello stretto spazio asciutto mi sono steso e ho dormito per qualche minuto, col braccio piegato a far da cuscino. 


Cima Sternai.


una della valli del mio cuore, dove non mi sono potuto fermare quanto desideravo. 




Tutti gli altri giorni. Le alte quote.


Camminando a volte si chiacchierava, altre si creava un silenzio spontaneo. In quei momenti eravamo 7 uomini che camminavano in fila su questo stretto nastro di sentiero  costeggiando montagne nate nel Mesozoico. Ognuno con le proprie speranze e con i propri demoni interiori. Quelli erano i miei momenti preferiti. Guardavo dove mettevo i piedi, ma anche i piedi di chi era davanti a me e armonizzavo il mio ritmo col suo, come un mantra. A volte ero io davanti, e si era tutti  un'unica cosa camminante.  Le sere di quei giorni ho proposto piccole introduzioni alla meditazione. Brevi periodi di raccoglimento seduti in silenzio, per far sentire a tutti il senso dell'essere nel presente senza fare altro. Un'altra sera ho sfruttato la valle dove avevamo messo le tende per invitare tutti a coltivare la presenza introducendo lo stone balancing. Un pomeriggio camminavamo su un pianoro accanto a un torrente che gorgogliava allegro. Li ho raccontato loro dei 3 Segni dell' esistenza ( le tre caratteristiche che condivide ogni cosa della nostra realtà, secondo il Buddhismo. In cambio ho imparato anche io qualcosa. Per esempio che sapore ha l'Acetosella, o che sensazione sa regalare il filo elettrificato delle recinzioni dei bovini. 

 Ho riflettuto molto sull'acqua, in quei giorni. Ne avevamo molta intorno a volte, altre era assente. 
 Col tempo si ri-impara ad apprezzare un bene come l'acqua, nulla è regalato. Nulla, accendendo un interruttore o aprendo un rubinetto.
E' preziosa la possibilità di raccogliere l'acqua dei torrenti ( è necessario cercare dell'acqua pulita e lontana da deiezioni animali, sedimenti o inquinanti). 
Ognuno raccoglie la propria, la filtra, la beve o la usa per lavarsi o per cucinare. Per lavare le proprie stoviglie, i denti, i calzini da usare il giorno dopo. Far bollire dell'acqua per una tisana, per farsi una minestra.  Al quinto giorno era anche troppa. 


Ha piovuto tutto il giorno e ne abbiamo approfittato per riposare in un piccolo bivacchino dove abbiamo solo riposato, chiacchierato, mangiato e dormito. Una sofferenza per chi non è abituato a stare fermo. 


Io ho meditato per quasi tutto il pomeriggio osservando da sotto la tettoia le gocce di pioggia raccogliersi sotto le travi di legno e cadermi vicino. Ho messo il pentolino vuoto sotto di esse e così ho avuto anche la musica. Per tutto il giorno nuvole  nebbia mostravano o nascondevano la catena di montagne di fronte a noi. Ho condiviso una delle sessioni di meditazione con Lorenzo e Luca, che non era mai stato seduto per 15 minuti. Alla fine abbiamo parlato delle nostre reciproche sensazioni. 




Il giorno dopo siamo ripartiti che era ancora buio, sotto la pioggia. Su fino al passo Cercen, con lo zaino pesante di cibo. Abbiamo percorso diversi km in un bellissimo Lariceto ed eravamo già all' interno del parco Nazionale dello Stelvio. Sono rimasto indietro apposta quella mattina (nei giorni seguenti lo avrei fatto sempre di più),  per sentirmi un pò solo e per godere del lichene peloso sui rami dei larici, che da me non esiste. Ogni tanto attingevo potenza dalla bottiglietta riempita di caffè di due giorni prima. Sotto, il prato umido e morbido. Animali che ci osservavano. Ero così felice di essere arrivato fino a là senza dolori. Merito anche delle sessioni di stretching che mi sono imposto di fare ogni sera, per quanto fossi stanco.

Dal settimo giorno abbiamo iniziato a salire sul serio. Valli davvero impervie, senza neanche più le indicazioni dei sentieri. Sopra i 2700 metri  abbiamo notato il colore dell'acqua del torrente cambiare e Lorenzo ci ha detto di caricarci di tutta l'acqua di cui avremmo avuto bisogno per quel giorno, almeno 2 litri e mezzo ciascuno. 



 Risalendolo il torrente si è lentamente trasformato in un ruscello in pendenza, poi in cascata e le rocce che bagnava erano biancastre. Strano. Nel frattempo è comparsa sopra di noi una famiglia di stambecchi.


Risalendo ancora siamo arrivati a uno spettacolo surreale e silenzioso. 

Il laghetto dalla bellezza misteriosa e quasi inquietante.

Un senso di euforia mi ha preso quando per ultimo, in coda alla fila, l'ho visto. 





Abbiamo dovuto portarci tutta l'acqua di quel giorno in spalla, perchè quel bel colore significava elementi minerali o metallici disciolti nell'acqua. Meglio non rischiare.

Oltre i 3000


Il canalone



Poco dopo abbiamo incontrato una  pietraia veramente infame, con sassi grossi come una piccola auto che ballavano. E oltre è iniziato il tratto più tecnico di tutto il trekking. Un canalone largo 2 metri fatto di sfasciumi e ghiaia che franavano. In quell'occasione la maledetta via ferrata fatta con Perez qualche anno fa (che negli ultimi 30 metri era franata e quindi in quell'occasione fummo costretti a fare arrampicata libera) si è rivelata utile, facendomi sembrare quel canalone una passeggiata. Così dopo aver chiesto il permesso alla guida di poter andare avanti me lo sono fatto praticante di corsa, arrampicando agilmente fino in cima mentre gli altri si aiutavano a vicenda per superare i punti critici. 

Arrivato in cima ho potuto prendermi del tempo. Tempo per rimanere turbato.




In cima al passo, superati i 3100 metri, c'erano reticolati di filo spinato vecchi di 100 anni che dividevano ancora quello che era il territorio austro ungarico da quello italiano. Ho dovuto camminare con attenzione perchè per quanto quasi polverizzato dalla ruggine era ancora pericoloso. Poco più in alto ho trovato il bivacco della grande guerra dove avremmo passato la notte. Qui mi sono aggirato tra i vecchi ruderi, Altro filo spinato, bossoli, ossa. Ossa umane. I segni della prima guerra mondiale qui erano ancora ben visibili. Un tema che mi ha sempre colpito. Ma non ne avevo ancora visto resti così numerosi come qua. E così in alto. Che genere di vita devono aver vissuto i soldati, qui, abbarbicati a oltre 3000 metri con  un cappotto di lana e poco altro? Magari in inverno, con metri di neve. Aspettando il prossimo assalto notturno o temendo colpi di artiglieria, mentre si stringevano contro i muretti a secco eretti per proteggersi dal vento tagliente?  Mi sentivo smarrito e piccolo. Poi gli altri sono arrivati e siamo entrati nel bivacco insieme. 
Anche il bivacco era un vecchio riparo della prima guerra mondiale ristrutturato dagli alpini della zona.  Ci ha offerto dei letti, una piccola stufa e una scorta di legna asciutta. Ne abbiamo comunque portata un pò da fondo valle per rimpinguare le esigue scorte. Durante il pomeriggio abbiamo riposato e pranzato.  A quella quota l'acqua  bolle davvero molto prima dei 100 gradi, e il sole picchia in modo aggressivo quando compare tra le nubi. I vestiti messi ad asciugare erano secchi in pochi minuti. Poco dopo il pranzo mi sono seduto in disparte a scrivere sul taccuino i fatti del giorno, il percorso fatto e riflessioni varie. Sotto un sasso ho intravisto un topolino che cercava resti di cibo sotto le panche e gli ho regalato un biscotto. 
Nel tardo pomeriggio ho meditato prima da solo poi con Lorenzo e Marco, facendo una sessione più lunga del solito. E' stata la sessione di meditazione in esterna più silenziosa che abbia mai sperimentato.  Le rocce taglienti sulle quali eravamo seduti costringevano  a rimanere nel presente.  Ma essere a quella quota era come essere su un aereo: le nuvole ci passavano vicino, oscuravano o poi mostravano il sole e le montagne intorno, i ghiacciai lontani e le valli molto più in basso.







La notte grazie ai tappi che uso per dormire non ho sentito nè il vento che fischiava tra le assi di legno piegate dal tempo nè la pioggia che cadeva. Mi sono immaginato la straordinaria stellata che avrei potuto ammirare se il cielo fosse stato sereno. Una mattina gelida e ventosa ci ha accolti e siamo riusciti a vedere sprazzi di alba tra le nuvole. 












Poi è iniziata la lunga e dolce discesa verso il Passo Gavia entrando in Lombardia. Ottavo, nono giorno. Li ricordo perchè da quel momento la compagnia ha iniziato a pesarmi e il bisogno di stare per conto mio ha iniziato a farsi prepotente. Quel pomeriggio, scendendo da una ripida pietraia il ginocchio ha iniziato a farmi male, ho preso un paio di mini distorsioni dovute alla stanchezza e alla fretta. Tutti correvano. Perchè? Non capivo più quella fretta, quel rotolare giù come sassi, come fosse una gara. C'era così tanta bellezza intorno da vivere, da vedere, dalla quale farsi commuovere...

Vedevo rosso. 

La rabbia mi aveva colto e per una buona ora sono rimasto in silenzio e furioso con loro per questo modo di fare e con me stesso per il mio arrabbiarmi in un luogo tanto bello. Quando siamo arrivati al punto tenda di quel giorno, nei pressi di un bivacco chiuso, ho immediatamente agito appena gli altri si sono allontanati per lavarsi in un torrente. Ho cominciato a respirare, lavandomi a mia volta con una bottiglia d'acqua presa da una fonte. Gelida. Mi sono asciugato con lentezza deliberata, poi mi sono vestito ancora più lentamente. Con gesti lenti e misurati ho camminato fino al mio zaino per prendere i vestiti puliti. Pochi altri passi per tornare alla fonte e ho lavato i vestiti sporchi come se fosse l'ultima azione che avrei potuto compiere in questa vita. Agire così è per me esattamente come meditare immobile seduto a gambe incrociate o lavare i piatti: un antidoto al veleno per il cuore che è la rabbia. Una vecchia amica dalla quale sto lavorando per allontanarmi. Ha funzionato. In meno di un'ora la mente era pacificata. I ragazzi sono poi tornati e abbiamo cenato insieme e ho guidato una lunga sessione di stretching, mentre il sole tramontava dietro le cime.  Era il penultimo giorno, quasi la fine del viaggio. E la rabbia non aveva vinto. 



La mattina dopo abbiamo affrontato gli ultimi passi in un continuo saliscendi immersi nella nebbia. Io per tutta quella mattina sono rimasto un pò indietro quel tanto che bastava  perdere di vista i ragazzi davanti a me nelle nuvole, ma non tanto da ricomparire ai loro occhi se, preoccupati, si fossero fermati.  Per alcuni km il sentiero costeggiava un ripido versante con alcuni piccoli tratti franati, e in caso di caduta nessuno avrebbe potuto fare niente. Tanto valeva almeno non perdersi di vista e rimanere uniti. Ma il bisogno di ascolto era troppo forte, non potevo più ignorarlo. C'era una valle senza nome che ho segnato sulla mappa. Un piccolo pianoro senza nome, banale agli occhi degli altri. Là, con la scusa di dovermi assentare per qualche minuto per "mandare un fax", mi sono seduto mentre gli altri andavano avanti e mi sono preso qualche minuto per imprimermi dentro quelle curve erbose, quei sassi. un paesaggio coì perfetto proprio perchè asimmetrico, naturale, non artificiale. Senza segni umani a parte il nastro del sentiero. 

Quella bellezza era esattamente Wabi-Sabi.

Alla fine di quel giorno ci siamo accampati al limite di un paese, per poi scendere ancora un pò per regalarci una pizza che ci è stata consegnata direttamente nell'ultimo posto tenda di questo viaggio... nel campo da calcio di un paesino. Terreno morbido e pianeggiante. Quella notte ho dormito poco, agitato da strani sogni tristi e romantici. Però stavo bene. Ero arrivato a macinare tappe da 24 km con 1600 mt di dislivello. Le gambe si stavano abituando.
La mattina dopo ci siamo incamminati con la consapevolezza di puzzare come delle carogne e di dover smontare le tende per l'ultima volta. Pochi km dopo eravamo nel paese. Ho imparato tanto su di me in questo breve e lungo viaggio, così intenso per noi. Mentre al di fuori il mondo viveva dieci normalissimi giorni per noi il tempo era dilatato. Abbiamo tratto lezioni da ogni particolare che Lorenzo ci ha insegnato sull'acqua, sui cibi da portare, su come comportarsi con vipere e altri animali, su come trattare le vesciche, come camminare meglio. Questo mentre facevamo gli ultimi kilometri su un sentiero dolce che scendeva verso il paese finale. Infine strade asfaltate, rumore, smog. Nella grande ragnatela di binari che segnano il nord Italia ognuno ha preso la sua strada per tornare a casa, portandosi dentro la propria lezione. 


Mi mancano già le montagne.