sabato 7 giugno 2025

Appunti per un sistema di trasmissione del Parkour, parte 3/3

 "Pensare libero e tanto porta a numerosissime contraddizioni, ma ogni contraddizione risolta  è un'evoluzione del pensiero." 

Dal diario di viaggio in Asia di Federico, 2010


Nel maggio del 2016 Gato, aka Federico Mazzoleni, scriveva "appunti per un sistema di trasmissione del parkour parte 1 e poi 2/3. La terza parte non vide mai la luce. 

Gato è morto nel gennaio del 2019. Il suo corpo, almeno. In noi  ha lasciato un vuoto, ma in me ha lasciato soprattutto qualcos'altro.  Una chiamata.

La voglia di continuare a scavare il tunnel che a forza di mani aveva iniziato lui. Insomma, celebrare la sua vita continuando il lavoro, invece di celebrare solo la sua morte come i nipotini che vanno a visitare al cimitero la tomba della nonna morta una volta all'anno. 

 Quel vuoto lasciato dalla sua morte io non l'ho mai davvero sentito. Ma ho sentito e sento la sua "presenza"  nella mia mente in ogni dubbio che mi pongo quando devo rompere ( o aprire? Non riesco a decidermi quale parola descriva meglio il processo) un salto, quando decido cosa e come insegnare ad adulti e ragazzi, quando mi interrogo sul mio valore, quando pubblico un video del mio allenamento. 

Sono cresciuto anche grazie a lui. Se questo blog è nato nel 2009 è anche perchè leggevo il suo. L'ho divorato, mi sono lambiccato il cervello per anni, nel tentativo di capire qualcosa dei molti livelli dei suoi ragionamenti ed ero ammirato dalla profondità scientifica e dal rigore della sua ricerca. 

Ragionare sulle ragioni divine e sull' ingiustizia della sua morte ha poco senso, e per quanto lo conoscevo, credo che mi avrebbe riso in faccia della mia serietà nell'ammirarlo, così come avrebbe riso della soggezione che provo ora nel tentativo di portare avanti la sua ricerca come insegnante. Mi immagino quegli occhi  celesti furbetti dirmi, ghignando: " Tè Ghost, cosa aspetti?! "

 Ora sono quasi sette anni che è morto e pensandoci i sette anni da quando è scomparso sono quasi più lunghi degli anni in cui è stato pioniere in Italia. Oltre al ricordo della sua visione, che si è interrotta in un periodo difficile per il parkour/ADD in Italia, voglio portare avanti la ricerca con lo spirito di questo momento, con tutta la bellezza, la sporcizia e le contraddizioni che lo segnano. 

Allora scrivo, Gato. lascio i miei due cents su come insegnare il parkour/ADD , ora che ho più esperienza e ora che so prendermi meno sul serio. Ora che intravedo a tratti l'impermanenza di tutte le cose. Porto il mio, ma prendo anche da te, che eri così bravo a trarre parole e immagini dalla parte più difficile del parkour, la parte invisibile. Che poi è quella che fa tutto quello che lo rende arte (marziale) e non solo sport di prestazione. 

Ho deciso di scriverne perchè ho dovuto prima riconoscere quali sono le qualità che cerco di sviluppare in me, poi quelle per poter insegnare al massimo delle mie capacità e poi quelle che voglio tramandare insegnando. E ovviamente il cosa e il come.


Alla base di tutto ci sono alcuni assiomi irrinunciabili senza i quali il pk/ADD non sarebbe quello che è, ma solo un imbastardimento della ginnastica artistica.

Non competizione: il parkour offre qualcosa di diverso dai soliti sport, dove le regole sono sempre più precise in termini di comportamento, possibilità, limiti di partecipazione e standardizzazione per ottimizzare la performance. Nei primi decenni dalla nascita di discipline freestyle come l'arrampicata libera, la breakdance, lo skate e il surf c'era il forte desiderio di dissociarsi da una realtà sportiva ( ma forse proprio da una società) che imponeva di adeguarsi chiudendo la libertà di espressione in regole, punteggi e stili. Mentre la non competizione permette un confronto sano tra le persone riconoscendo la soggettività, i gusti personali, i diversi modi in cui può svilupparsi il problem solving personale.  Il parkour ADD è uno strumento politico proprio perchè scardina queste regole. Si può fare fuori praticamente gratis e ovunque. Ognuno può farlo secondo le proprie capacità e non deve rendere conto a nessuno se non a sè stesso/a dei propri risultati. E' una forma di dissenso e di presa di coscienza. 

Coerenza: Il parkour è solo un'attività. Di per sè nè nobile nè bastarda. E' uno specchio. Mostra quello che siamo senza poterci nascondere. E ci chiede di fare uno sforzo per produrre qualcosa di coerente con i valori di cui ci riempiamo la bocca (pratichi? Pratica quello che dici. Insegni? Formati, sii competente, non farlo a caso solo per due soldini). E non lo fa solo quando siamo di fronte ai nostri corsisti, con il mantello dell'eroe addosso. Ma quando ci alleniamo da soli, quando decidiamo se chiuderci in palestra perchè fuori piove (mentre cianciamo del valore dell'adattabilità) , quando editiamo un video dei nostri movimenti in un modo che tutti i salti sembrino più grossi e tagliando le parti imperfette o il processo.  E' la nostra coscienza. Ed è facile sottrarvisi per due like, un euro in più,  uno sbattimento in meno.

 Un piccolo appunto, entrando quasi nel mio ventesimo anno di pratica, ed è per me ancora un'espressione di coerenza. A chi mi chiede cos'e' il parkour non rispondo più con la solita risposta standard mettendomi in modalità replay e sciorinando la solita definizione, più o meno sempre quella e tra l'altro un pò ambigua. Quando mi chiedono :" Cos'e' il parkour"?  Io rispondo con tutta l'onestà di cui sono capace: "Io non lo so. So che è qualcosa a cui sono devoto.". " E come lo insegni?" " Il parkour si può imparare, ma non si può insegnare."




Le qualità che ricerco:

Forza

Averne abbastanza per pianificare un'invasione, costruire una casa, scavalcare un muro, sollevare una persona, traversare una parete di roccia, rimanere freddo quando tutti intorno perdono la testa, resistere alle tentazioni, mandare k.o. un nemico o riuscire a farlo ragionare con la forza della mia calma.

Comunità

Trovare nel tempo persone che, pur nella loro diversità stiano viaggiando nella mia stessa direzione. Formare una tribù. Spingere e farsi spingere per avvicinarsi ad esprimere il proprio potenziale, cosa difficile da fare da soli.

Espressione di sè.

In ultima analisi il parkour è per me una forma d'arte.  E tutte le forme di arte sono espressione di sè,  della propria visione interiore. Cercare di  vivere la mia pratica e la mia vita  come un' arte richiede grande onestà e umiltà, prerequisiti fondamentali per potersi esprimere sinceramente, lontani da mode, schemi e convenzioni sociali e culturali.

Ovviamente queste idee sono temporanee, cambiano. Sono Vive e Verdi! Alcune sono più importanti oggi di ieri, altre le lascio perdere per un pò e poi ci torno. Cercare di avere dei fondamenti non è soltanto avere dei pilastri solidi, come i tre pilastri della piramide del parkour. Ma ha significato per me costruirmi un timone e una vela per dare a questa barchetta sperduta nell'oceano una rotta. Che non so dove mi porterà, ma almeno posso esplorare avendo una direzione. 

Bodhidharma, da cuore a cuore


I princìpi del mio insegnare

Qui voglio condividere i fondamenti della pratica che voglio passare nel coaching e che dividerò principalmente in quattro grossi rami dell'albero:

Il far fare

 So dovessi riassumere al massimo cosa fa il coach di ADD/Parkour, direi che l'insegnante è colui che fa fare alle persone. Far fare non significa  certo imboccare i discenti con nozioni e tecniche, in maniera verticale e soprattutto facile.  Trovo molto rischioso insegnare delle tecniche così come noi insegnanti le sappiamo eseguire adesso, in modo più o meno perfetto. Io preferisco, dopo una fase iniziale di osservazione delle persone a cui insegno per esempio il monkey, capire quali sono i princìpi che ognuno deve capire per comprendere il movimento, e questo richiede alcuni fattori di cui tenere conto:

  • Personalizzazione: ogni persona è diversa. Per età, livello, forza fisica, intelligenza motoria. Ognuno ha timori diversi, più o meno fondati. Quindi ciascuno avrà bisogno di consigli diversi e non ha senso standardizzare per velocizzare il processo , magari col fastidio per chi rimane indietro. 
  • Il principio del labirinto: guidali, dà loro gli strumenti, ma poi lascia che trovino da soli l'uscita. Imparare dai  propri errori, dover combattere con le piccole frustrazioni date dal non capire un movimento e poi risolverlo da soli permette il vero apprendimento, quel cambiamento interno dato dal lavoro tecnico che và a braccetto con quello emotivo ( ed ecco perchè il talento è una trappola, per chi impara ma soprattutto per chi insegna). Queste persone impareranno più lentamente che se gli avessi detto tutto e subito? avrebbero imparato il monkey. Ma nient'altro. Invece in questo modo rimane nella memoria anche la gioia del successo guadagnato con la propria fatica. Si ricorderanno i dettagli necessari per eseguirlo nel migliore dei modi. Il coach è un facilitatore, non una nutrice. Ed ecco perchè il talento è pericoloso. Chi impara qualcosa molto facilmente e in poco tempo (perchè ha un talento)  non è dovuto passare attraverso decine se non centinaia di tentativi, che permettono di scoprire varianti, progressioni e regressioni preziosissime quando si insegna a persone molto diverse, ognuno con i propri bisogni. Ogni errore ripetuto è un vicolo cieco che lo studente deve trovarsi davanti per poter capire di dover provare un'altra strada. 

  • La sfida: un tema che negli anni si è ripresentato più volte, un tema che per molti insegnanti è critico e sempre aperto: quanto far rischiare ai propri allievi? E' necessario dare gli strumenti necessari a gestire la situazione pericolosa. Poi è importante comunicare con molta chiarezza quali sono i rischi di quella situazione. In seguito  io ritengo sia essenziale spiegare il valore che sta dietro l'affrontare un salto che potrebbe essere fatale ( spero che qui non sia necessario entrare nel merito). E infine bisogna avere fede. Fede significa fiducia che quella persona saprà gestire la situazione,  sia che lo faccia sia che rinunci. E accettare di buon grado le possibili conseguenze, che dovranno essere minime se abbiamo lavorato bene. Ma non dimentichiamo che il parkour/ADD è pericoloso. Non raccontiamoci bugie.

La trasmissione da cuore a cuore

"Da cuore a cuore" è un modo di dire del Buddhismo. Indica  una trasmissione empatica della disciplina, al di là del linguaggio e del formalismo. Ascolto, dialogo, aprirsi come essere umani e, anche siamo coach, parlare delle proprie paure e dubbi. L'ho sempre fatto. Non ho mai creduto a questa aura di divinità e perfezione che alcuni insegnanti hanno o si costruiscono. Da cuore a cuore significa, per chi l'ha fatta con me, guadagnarsi la settimana di ferro, con tutto quello che c'e' dentro, Significa coltivare coi propri corsisti ( o partecipanti a un workshop) una pratica che và ben oltre i salti. Può essere la tazza condivisa da cui beviamo la stessa acqua.

I princìpi invisibili oltre la tecnica

  • Esplorazione: provo a portare una visione della pratica in città esattamente come se fossimo un gruppo di Neanderthal in un ambiente sconosciuto. Una foresta. Allora non ci sono direzioni in in cui non si può andare, livelli che non possiamo esplorare alla ricerca di risorse, o per pura curiosità umana. In questo modo il parkour non si riduce al riempire uno spazio d'aria col proprio corpo, saltando da un punto ad un altro. La città  diventa foresta viva e piena di angoli e misteri da conoscere. I salti, le tecniche, sono solo i mezzi con cui conoscerla in ogni suo segreto. Niente che non potrebbe esserci anche senza un singolo salto.
  • Conoscenza di sè : i breaking jump sono mezzi per conoscere il sè di oggi e aprire la strada a quello che verrà domani. Il resistere alla fatica è un altro mezzo. Prendi misura della tua forza e scopri quanto sei vigliacco, debole, quanto sei disposto/a a barare per finire qualche secondo prima. E' questo il nostro lavoro. Spogliare le persone e noi stessi delle sovrastrutture e vedere la perla che si nasconde sotto. Chi partecipò alla sfida finale del workshop a Verona di un paio di anni fa si ricorderà la tensione, lo scontro di ossa e tendini nel rimanere in quelle posizioni per un tempo infinito. 

espressione di sè (della propria arte interiore)

Mi impegno attivamente perchè le persone che alleno non diventino miei cloni. Se non si sta attenti le persone iniziano a imitare naturalmente il modo di fare, di parlare, persino di gesticolare dell'insegnante se questo ha carisma ed esercita una qualche forma di soggezione. Ma soprattutto insisto sul far trovare a ognuno il proprio stile di movimento e di creazione di percorsi. Come diceva quello stronzo del mio mentore quando facevo il panettiere, che mi sgridava  perchè cercavo di rubargli il lavoro con gli occhi: fai come dico, non come faccio io. Meglio non correggere ogni errore che si vede, o qualche sbavatura nei movimenti. Che ognuno possa esprimersi, anche se per molto tempo non sapranno cosa significa esprimersi, cioè andare oltre le tecniche più fighe e i salti più grossi. Questo nell'insegnamento. E per me come praticante? Vale lo stesso. Valgono le parole di Bruce Lee qui.


Camminando speso in montagna mi è venuto un pensiero sull'insegnamento. Noi insegnanti, di qualsiasi livello, vogliamo portare i nostri discenti sulle cime delle montagne, che rappresentano il livello di competenze che vogliamo che queste persone raggiungano e che sarebbe anche il livello al quale ci troviamo noi ( perchè lo vogliamo, vero? Non vogliamo tenerceli come corsisti all'infinito, spillando i loro soldini per più tempo possibile centellinando le conoscenze, vero?!) . Bene. Ma l'errore che non dobbiamo fare è quello di aspettare queste persone in cima. Noi non dobbiamo essere in cima e chiamare i nostri studenti incitandoli dall'alto a camminare per raggiungerci. Non è così che si và in montagna e non è così che si dovrebbe insegnare, per me. Si dovrebbe partire tutti insieme dal basso, camminare insieme, magari indicando il sentiero migliore a un bivio o i punti critici da evitare- anche perchè in tutto questo processo le persone ci guardano e ci imitano (l'insegnamento è costante, anche quando non stiamo insegnando). Alla fine lo scopo dell'insegnamento non dovrebbe essere quello di portare le persone sulla nostra cima, ma dovrebbe essere insegnare loro a camminare sui sentieri. Poichè solo così le persone saranno in grado, in futuro, di salire sulle LORO cime. 


Infine: Questo non è che un tentativo di tradurre le vaghe sensazioni e le poche certezze accumulate in questi anni di pratica e insegnamento per scritto. E' pur sempre un diario. Non è la verità, neppure per me. E' il desiderio di saldare il debito che sento col parkour, che tanto mi ha chiesto e che tantissimo mi ha dato. E' un amante al quale sono devoto. Ed è anche per questo che insegno. Per restituire qualcosa di quanto ho ricevuto.  Non ho l'ardire di portare avanti la ricerca di Gato,  ma è anche grazie a lui se sono quello che sono. Glielo dovevo. 







 


sabato 31 maggio 2025

Mi sentivo nudo, sulla via ferrata.

 Da pochi mesi è stata creata la prima ferrata della provincia di Varese. Appena ne ho letto mi è tornata immediatamente alla mente quella fatta con Perez. La mia prima ferrata. Un incubo. E credo di non averne mai scritto in realtà. Chissà perchè. Comunque fu una delle esperienze più estreme della mia vita. 

In ogni caso dopo quella ne ho fatta solo un'altra. Quindi ho pochissima esperienza, anche se mi affascinano. Così oggi l'ho cercata. Nella mia immaginazione l'idea era quella di  fare solo una breve esplorazione, fare qualche prova ben ancorato e poi magari un giorno tornare e farla con più confidenza.  Ho imparato a diffidare delle guide che le descrivono ( sia sotto che sopravvalutando le difficoltà e la lunghezza) e volevo vederla coi miei occhi per saggiarla. Bene. La microavventura prevedeva alcuno obbiettivi da raggiungere in ordine:

  1. Trovare la ferrata;
  2. Approcciarla con estrema cautela essendo da solo e avendo molta paura sia di arrampicare sia delle altezze;
  3. Tornare a casa vivo.
Dopo un'ora e mezza di cammino l'ho trovata. obbiettivo numero 1 raggiunto. Tiro fuori dallo zaino il kit ferrata, il casco... e li indosso. E poi realizzo che il kit ferrata non è un imbrago, è un kit da ferrata DA LEGARE all'imbrago, che ho lasciato a casa. Cosa faccio, torno a casa? eh no. Il karma aka la mia demenza senile mi ha condotto evidentemente a questo punto.  Così ho alzato lo sguardo e ho immaginato come procedere, il vecchio mental game del Danilo semi trasparente che esegue tutti i movimenti necessari, mette i piedi dove vanno messi, le mani che prendono gli appigli con la forza necessaria ma non eccessiva, per non  ghisarmi gli avambracci a metà e rischiare di cadere vittima del panico. 








La tocco, inizio a provare un pezzetto. La partenza è il pezzo peggiore. Strapiombante e verticale, per poi virare a creare un lungo arco di traverso, scendere in una sorta di camino per poi risalire e finire il lungo arco. Troppo difficile. Sono sceso con le mani sudatissime e già un pò doloranti per aver stretto così forte il cavo e le staffe. Vado a vedere come finisce, dalla parte opposta. 
Molto meglio questo lato, che inizia dolcemente e con diversi appoggi. Così ho provato a salire una decina di metri da questa parte: i battiti cardiaci sono saliti in fretta, ma imponendomi di fare tutto con calma e di tenermi appena al cavo come fossi un ragnetto il cedimento muscolare non è quasi arrivato. Ho fatto una pausa agganciando entrambe le braccia al cavo: questo mi ha fatto si riposare, a comprimendo i gomiti tutto il sangue che gonfiava gli avambracci è rimasto lì facendomi sentire affaticato. Ora di scendere! Camminando avanti e indietro ho fatto per studiarla, ma in realtà nella mia testa stavo solo decidendo: quello che avrebbe dovuto essere un percorso di avvicinamento graduale nell'arco di parecchie uscite, si fa oggi.

Immaginavo che oggi l'avrei fatta con il kit e l'imbrago, e già sarei stato contento di farla in solitudine, per poi fra un pò di tempo tornare lì molte volte e farla con sembra maggiore confidenza fino a farla un giorno, chissà, usando meno volte i moschettoni del kit, e poi forse in futuro, farla libera. Ma ero già lì. Cosi mi sono deciso: Sono da solo, se mi succede qualcosa sono guai. Proverò andando con grande prudenza e potendo tornare in ogni momento indietro. Reversibilità, come mi ha insegnato il buon Lorenzo riferendosi al metodo Feldenkrais. Niente panico. Si respira, si và. In ogni momento non sarò mai solo appeso sulle braccia, per non ghisarmi  ma anche per non scivolare con le mani sudate, dato che non ho i guanti da ferrata. 

Ovviamente ho deciso di partire dalla partenza ufficiale per liberarmi da fresco del punto peggiore, lo strapiombo verticale. Piano, un passo per volta .

Ho scelto di farla, nonostante avessi dimenticato a casa l'imbrago perchè mi è sembrato un esempio perfetto di cosa significhi essere un praticante: Avere abbastanza forza fisica da poter gestire quel tipo di sforzo e abbastanza forza mentale da rimanere freddo e lucido. Un corpo in forma, autocontrollo, e non essere schiavo dell'essere over protetto, come il mondo desidera per noi.  Proprio le sfide che il parkour ci lancia. 


Avevo bisogno di sentirmi esposto, vulnerabile, per poter esercitare quel controllo dato dalla pratica meditativa. Seduto su un cuscino in casa non è una vera prova. 

Vogliamo essere giardinieri in guerra o guerrieri in un giardino? (Grazie per questa frase illuminante, Vecchio Taoista). 
 In un certo senso è stato anche divertente.

Lentamente e prendendomi tutte le pause che servivano nei punti più sicuri, ce l'ho fatta.  Ho fatto una ferrata da solo e slegato. Un bel breaking jump. Per fortuna non c'era nessuno a cui dover dare spiegazione o che stesse a guardare. Grande soddisfazione per un'altra paura sconfitta.













domenica 30 marzo 2025

Stealth parte due: Foresta

 





Sono passati 5 anni dal primo post sullo stealth e dal video (che potete trovare qui ) che girai per provare a condividere i primi mesi di ricerca in quell'ambito. La ricerca è andata avanti e così il mio allenamento. Tanto da aver tenuto quest'anno un workshop su stealth e Buddhismo Zen nella stessa giornata.  E' stata la prima volta che in cui ho condiviso con l'insegnamento i frutti di questa pratica e degli anni di ricerca. Qualcosa che spero di ripetere. 

Per tornare alle pratiche di furtività il video appena uscito  (questo, assurdo incredibile, andate a vederlo ) è dedicato esclusivamente alla pratica in ambiente naturale. Le linee guida generali sono le stesse del post scritto nel 2020.  Ma ho dedicato parte dell' allenamento ad alcuni aspetti che volevo migliorare e approfondire. Ci sono alcuni aspetti della pratica di cui non è ancora il momento ( forse non lo sarà mai) di parlare, qui. Ma per iniziare da quelli più pratici:


-Corsa. L'esercizio per eccellenza. La semplice capacità di coprire delle distanze sul terreno coi propri piedi era vitale all'epoca del Giappone feudale così come lo è per le forze d'elite degli eserciti di tutto il mondo.  Non a caso ogni esame fisico per entrare a far parte di forze speciali include una parte di corsa su lunghe distanze.  A corpo libero o equipaggiati con zaino, armi e scarponi. 

Correre per brevi distanze ad alta velocità. Un umano deve essere in grado di fare uno scatto di 50, 100, 400 metri. Per entrare rapidamente in un territorio o per fuggire da esso.

Correre per lunghe distanze con e senza sovraccarico. La corsa è ad oggi uno dei metodi più efficaci per costruire forza e resistenza in termini di resistenza fisica e psicologica.

Aumenta la resistenza al dolore, alla fatica, alla stanchezza. Migliora la densità ossea. Abbassa la frequenza a riposo del battito cardiaco. Migliora il metabolismo. Migliora la circolazione periferica e polmonare. Negli ultimi tempi quando corro nella foresta lo faccio con scarpe minimali per ridurre il rumore provocato dai passi. A volte faccio uno o due km con una piccola zavorra nello zaino cercando di farlo su terreni irregolari per rimanere lucido nello scavalcare ostacoli e per variare il ritmo.


-Mimetismo con materiale naturale. Facile portandosi tutto da casa. Bisogna sapersi adattare e imparare  a raccogliere il materiale necessario sul posto. 

-Controllo del respiro  e del battito cardiaco subito dopo una corsa e nelle posizioni statiche di attesa, come la posizione prona e rannicchiata. 

-Pratica con le armi tradizionali. Anche se non in maniera consistente ho comunque dedicato del tempo per migliorare la mia mira con il fukiya (la cerbottana) e con la fionda, aumentando mira e distanza di tiro.

-Arrampicata e movimenti sugli alberi (sia orizzontali sia verticali). Sta migliorando la forza di presa, la resistenza alla fatica muscolare, la mobilità delle spalle e la capacità di gestione delle altezze.

-Capacità di stare immobile. Sento che lavorarci sta migliorando la resistenza psicologia al disagio di posizioni scomode, la freddo, all'umidità del terreno e permette agli animali di non  percepirmi più come una minaccia e così facendo si è più fusi e mescolati all'ambiente.




 "L'adattabilità è la chiave che apre le porte di tutte le sfide."- Fujibayashi Nagato




martedì 7 gennaio 2025

Sangha

 







Il Sangha è, nel gergo Buddhista, la comunità di monaci, monache, laici e laiche che praticano il buddhismo. Per me nel tempo ha iniziato a significare qualcosa di più della sola massa di persone che praticano l'ADD/parkour.  Quella è "la comunità". Persone che praticano la stessa attività. Qualcosa di cui non mai riuscito a sentirmi davvero parte. Mi sono sempre sentito un pò al di fuori. Un emarginato, per quanto auto escluso. Ma negli ultimi tempi quello di sangha è un concetto che continua a girarmi dentro. 

Ci sono persone che si allenano meglio da sole. E va benissimo così

In me invece c'e' sempre stato un conflitto ( uno dei molti): da una parte sentivo disperato il bisogno di sentirmi parte di una famiglia, di un gruppo di persone accomunate dalla stessa passione e dagli stessi valori, e puntualmente ai raduni mi sentivo invece a disagio, lontano dagli altri. Dall'altra sono sempre stato combattuto nel cercare di capire se fosse giusto allenarmi da solo o con gli altri. Credevo che per essere forte dovessi progredire in solitudine, senza bisogno di nessuno. Molti problemi interiori irrisolti insomma, niente di nuovo. 

Ora ho fatto la pace con questa confusione. Ho capito che per stare bene devo alternare momenti di solitudine ad altri di compagnia. Compagnia di persone random e di persone significative. E quest'ultima modalità è quella che io chiamo il Sangha.

Dentro di me c'e' un desiderio di condividere il processo dei salti, dello sbloccarli, del tenere unito, delle gioie del successo e della frustrazione dei tentativi con persone significative. Di qualcuno che abbia la sensibilità di capire le mie difficoltà senza banalizzare paura e disagio. Di empatia.  Di tenerezza. Non con persone casuali. Praticare con persone significative significa, è vero, che saranno sempre pochissime e in poche occasioni, perchè siamo tutti adulti e ognuno ha i propri impegni e le difficoltà che sappiamo. Ma quando ci si trova si crea un'alchimia che genera e accresce i legami, è telepatia tra persone molto diverse. E' un boost istantaneo del proprio allenamento.



 Ed è qualcosa che nel mio caso sblocca un potenziale di capacità molto grande, rispetto a quello che riesco a fare da solo, a meno di enormi sforzi. Anche questo è un punto importante. Per molto tempo non capivo il motivo di questa differenza. In fondo sono sempre io che faccio quel salto, non gli altri. Eppure per qualche  motivo biologico o psicologico in compagnia di alcune persone sento di essere molto più forte, più confidente, ma soprattutto IN PACE. Ho rotto dei salti mai fatti con incredibile leggerezza d'animo rispetto a quando li ho allenati da solo. Non ho trovato ancora una risposta certa a questo meccanismo interiore, a questa porta del chakra che si apra permettendomi di esprimere le mie vere capacità. Ma sento che è giusto, e tanto basta. Non mi sembra più una sorta di barare con la pratica. Credo però che tutto questo non provenga solo dal trovare le persone giuste, ma dal diventare noi stessi le persone giuste. Io negli anni ho lavorato tanto per iniziare ad avere un rapporto migliore con la mia paura e con la mia pratica. Quindi a lamentarmi meno. Quindi a diffondere un'energia diversa intorno a me. Cosa a cui non pensavo e che ora ritengo importantissima. Sappiamo tutti bene che con certi praticanti ci riesca naturale allenarci e che con altri ci troviamo a disagio. Così, a pelle. Non lo capiamo bene ma è una sensazione forte e  che non possiamo ignorare. Sono sempre più convinto che sia dovuta all'energia che ci trasmette qualcuno, qualunque cosa questo significhi. Ora so che per tanto tempo sono stato un peso, più che un compagno di allenamento. Esprimendo sempre e subito le mie paure, lamentandomi. Ora è cambiato.  Non identifico più il mio valore nei salti che faccio. Non mi importa di fare tutto subito e perfetto. Ora apprezzo la pienezza della paura, il suo sapore. Ho imparato a viverlo come parte della pratica.   Questo ha secondo me fatto cambiare anche la percezione che gli altri hanno di me. 


La cosa più interessante è che questo rapporto sembra essere reciproco. Pare che in qualche misura io faccia lo stesso effetto a loro, permettendo a questi umani di rimuovere una sorta di blocco e di esprimere non solo più tecnica e più potenza, ma anche più gioia nel processo stesso del rompere un salto difficile, rispetto alla frustrazione e ai lunghi tentativi di un tempo. Questa sorta di scambio equivalente, di alimentare a vicenda il fuoco interiore credo sia quello che ha fatto dei primi praticanti, i fondatori. Persone che hanno trovato nei loro compagni e compagne di allenamento più di una famiglia. Ma una vera e propria tribù. Un legame che forse, a causa della fiducia necessaria nello spottarsi e della consapevolezza di rischiare la vita insieme, forse è un legame più forte di quelli di sangue. Se troveremo le persone giuste possiamo essere non soltanto praticanti che si allenano, saltano sulle cose. Ma FORZE TRAINANTI per gli altri, motori in grado di progredire e far progredire, come degli enzimi che scatenano reazioni a catena esplosive.

Ora non posso che provare gratitudine per queste persone. 

Chi legge saprà a chi mi rivolgo. 




 


forza trainante