sabato 12 ottobre 2024

Il Tao dei breaking jumps



Ho costruito questo post  mentre leggevo il libro di Laurent e dopo aver ripreso in mano dopo molto tempo i testi fondamentali sul Jeet Kune Do.  

L'idea fondamentale del Daodejing è il seguire la natura, nel senso di non agire (wu-wei), il cui vero significato è quello di non compiere alcuna azione innaturale. Significa spontaneità, e cioè mantenere tutte le cose nel loro stato naturale, permettendo loro di "trasformarsi naturalmente". In tal modo "nulla viene intrapreso e tuttavia nulla viene lasciato incompiuto".

 Rileggere ultimamente queste parole di Bruce Lee sui princìpi del taoismo mi ha fatto sorridere, perchè prima ancora di scoprire il parkour leggevo i suoi libri, prendevo appunti, credevo di aver capito le idee che coltivava e la sorgente della sua filosofia, quella che poi avrebbe fatto germogliare il Jeet Kune Do.  Ma avevo 14 anni. Non capivo molto, anche se ne ero innamorato. 

il sentiero che porta al miglioramento nella mia pratica sta passando, in questi ultimi tempi, dall' usare un approccio diverso nell' allenamento. Diverso da quello che ho avuto per molti anni, influenzato da idee che da ragazzo avevo appreso, frainteso e radicalizzato. Pensavo che avere paura fosse un segno di debolezza, e più ne avevo più mi sentivo inadeguato. Un impostore. Credevo che essere dei praticanti dovesse significare spingere sempre tutto, sforzarsi, sbattere contro gli ostacoli a testa bassa, fino ad abbatterli. Vincerli tramite il proprio coraggio e la propria forza. Questo principio calzava come un guanto per il mio carattere rabbioso, introverso e sostanzialmente insicuro. Usavo la rabbia sviluppata durante l'infanzia come un potente carburante per alimentare il fuoco dell'allenamento. Che portava si dei risultati, ma il prezzo da pagare era alto.  Frustrazione, nuova rabbia, infelicità se le cose non mi riuscivano ( e sa il cielo sopra Varese quante non me ne riuscivano rispetto a quelle che mi riuscivano). Sono cresciuto vedendo intorno a me esempi di praticanti forti e coraggiosi che sembravano non temere nulla. Né il fallire né il farsi male. 

Decidevano di rompere un salto e lo facevano subito. Senza perdere tempo e paturnie.

Li ammiravo ma nello stesso tempo iniziavo a sentire che era inutile imitarli, non avrei mai potuto incarnare quel tipo di approccio. Mi ci sono voluti molti anni per capirlo. Anni di bruciante amore per la pratica, ma anche di dolore. Eppure non ho pensato neanche una volta di smettere, nonostante tutto.  Per fortuna, lento come sono a capire le cose, ho praticato abbastanza tempo da iniziare a realizzare cosa mi serviva. 

Un abbraccio. 

Un abbraccio gentile dato a me stesso, guardandomi negli occhi e dicendomi che non c'e' fretta. I salti che vuoi fare arriveranno. Certo, il coraggio servirà.  A volte un approccio gentile ai salti non sarà possibile. Quando servirà potrò ancora attingere a quella rabbia, se messa al servizio e usata a fin di bene.  Ma non è più necessario l'odio, per riuscire. 

Negli ultimi anni ho potuto usufruire di nuove influenze. Compagni di allenamento che non posso non definire benefici, per quanto meno frequenti di quelli avuti per tanti anni a Varese. Persone gentili che mi hanno insegnato parole che non conoscevo. Ascoltarsi, cercare strade alternative, progressioni e regressioni, sbagliare apposta e divertirsi.  Divertirsi nella pratica.   #ioconfuso.





Per fare tutto questo però prima ho dovuto affrontare un processo ( non nel senso di progresso, ma di vero e proprio processo giudiziario in cui mi sono trovato a essere imputato, avvocato della difesa e giudice) per non sentirmi più colpevole. Colpevole di non fare un salto subito e senza paura. Ero colpevole e reo confesso di voler essere qualcosa che non ero. Forte e coraggioso come l'idea di come avrei dovuto essere, e che puntualmente deludevo. Ho dovuto imparare a non identificarmi né nei salti che facevo né nella pratica stessa. 
Ho dovuto fare una divisione tra il mio valore come umano e e i salti che faccio. Mi lasciavo definire dalle mie possibilità di quel momento, senza lasciarmi lo spazio per nuove possibilità future.  Questo è un punto cardinale perchè sento che è da quel preciso momento che è iniziata la mia liberazione personale come praticante: quando ho smesso di identificarmi nella mia pratica tutto è cambiato. 
Tutto tranne la voglia di spingere e sviluppare la forza e la tecnica suprema.

Perchè sto facendo questo? Perchè dopo 19 anni di pratica continuo a mettere in discussione il mio allenamento e i motivi che mi spingono a praticare? Prima di tutto perchè non posso farne a meno. L'ADD, il parkour, il movimento, mi brucia dentro da sempre,  e come ogni cosa viva cambia, si trasforma. Poi perché anno dopo anno mi sto liberando sempre più delle tradizioni, dei modi di fare che si fanno solo "perché è si è sempre fatto così", delle cerimonie, dei formalismi.  Nella mia vita io voglio compiere l'opera senza esserne orgoglioso,  coltivare le cose senza prenderne possesso. Perciò il mio modo si pone complemento a tutti gli artifici, le regole, la formalità.  Voglio esprimermi nell' Art Du Deplacement  con onestà.
 " In definitiva per me, le arti marziali sono un modo per esprimermi onestamente. Esprimersi onestamente.. è molto difficile da fare. Voglio dire, è facile per me fare spettacolo ed essere arrogante ed essere inondato da un sentimento di arroganza e poi sentirmi piuttosto figo...o posso fare un sacco di cose false, accecato da questo  posso mostrarti qualche movimento davvero fantasioso. Ma esprimersi onestamente, senza mentire a se stessi...amico mio, è molto difficile da fare." -B. Lee, sulla natura delle arti marziali.


In ogni caso sto imparando ad utilizzare questa via morbida nei movimenti nei quali sono sempre stato più timoroso. Kong, running precision, ma soprattutto nel lavoro sulle altezze, dove prima mi paralizzavo. 

In sostanza, questa via morbida per sbloccare salti che fanno paura passa da alcuni concetti che si possono applicare quasi sempre:

Gradualità: sembra banale, ma entrati nella cosiddetta send culture, io faccio un passo indietro e mi prendo tutto il tempo per progredire con deliberata calma verso un salto. E' necessario sviluppare un pò di creatività per trovare le progressioni e le regressioni possibili o quelle necessarie in quel dato contesto e per quel dato salto. Ma si può fare. Così facendo sto trovando più stimolante che stressante un lavoro che prima magari mi avrebbe consumato il sistema nervoso in pochi minuti, potendomi in questo modo avvicinare meglio all'obbiettivo. Se ad esempio ho uno stride da fare su muretti in altezza  e ognuno dei passi dello stride è diverso dall'altro perchè i muretti sono tutti a distanza diverse non mi limito più alla solita progressione lineare, ( ne faccio uno, poi l'altro poi il terzo singolarmente per poi unirli) ma prendo il problema da un altro punto di vista. Prendo confidenza col fatto di usare un solo piede per volta, andando avanti e indietro camminando, faccio piccoli stride sul posto. Sto usando bene le braccia? Com'e' il lavoro di swing delle gambe? e i piedi come li sto appoggiando? Che tensione emotiva ho nel tronco? Che contenuto emotivo sto avendo quando sono in aria e quando atterro? Poi in pliometria. Poi uno stride e due plio, due stride e solo l'ultimo in plio, poi tutto. Ma rimanendo sereno, così da evitare la sindrome da secondo tentativo. 

Godere dell'insuccesso e sfruttarlo: qualcosa che sto avendo ancora difficoltà ad implementare con consistenza nel mio allenamento, così abituato alla classica formula  del "prova finchè riesci e una volta riuscito ripeti fino all'interiorizzazione."  Godere dell'insuccesso è qualcosa che sto apprendendo dai principi del Feldenkrais e che in pratica si fa sbagliando apposta un salto in molti modi diversi. Sbagliare deliberatamente è stato per me un mindblowing non da poco, quando non era per provare le tecniche di salvataggio dell'ukemi, perché significa si sbagliare un salto, ma non tanto da dover fare un salvataggio. E' più fare dei micro errori nell'assetto aereo o all'atterraggio così da doversi adattare all'istante e arrivare comunque incolume. Questo sistema crea delle inaspettate aperture alla creatività: 

  • permette di immaginare varianti più difficili dello stesso salto;
  • fare varianti più difficili rende il salto target più facile;
  • avendo fatto varianti difficili so di potermi salvare, questo a sua volta dà la sicurezza necessaria al provare il salto target con mente più calma e quindi con una tensione emotiva minore e quindi con maggiore controllo:
  • tutto questo fa vivere con minore pressione la progressione verso il successo, e fanculo la send culture.


Non forzare: "ora è il momento giusto per farlo. Ora o mai più." Questo discorso interiore và fatto e vissuto. Bisogna vivere con la massima presenza mentale e con la massima intenzione quello che ci si è messo in testa di fare. Impegnarsi davvero. Ma detto questo non muoio se non lo faccio oggi. Si può tornare  domani a farlo. Non succede niente.





Queste semplici idee stanno facendo germogliare in me una pratica diversa. Una pratica più serena ma non per questo meno spinta. A 35 anni sto spingendo salti che non avrei fatto a 20 o a 25 anni, ma senza il dolore interiore di prima. Sento questo cambiamento come l'appropriarmi lentamente e sempre di più della mia vera pratica, sempre più ADD  e sempre meno parkour. Questa sembra una frase da poco ma per me significa molto. Per molti anni ero granitico sulla mia posizione. Avevo scoperto questa disciplina col nome parkour, e così l'ho sempre chiamata. La guerra tra i fondatori non era la mia guerra. La capivo ma non mi importava, non avevo nessuna voglia di combattere una battaglia che non era la mia. Avevo già le mie di cui occuparmi. Ma negli ultimi tempi questa idea è cambiata. Non soltanto perché ho avuto modo di comprendere più a fondo ciò che lega e divide il parkour e l'ADD ma anche perché la mia stessa pratica si è via via trasformata. Non forzando il processo, esso è venuto da sè.